C’era
una volta, tanto tempo fa, una piccola città e, al centro di questa città,
circondata da un parco di salici piangenti, sorgeva una vecchia cattedrale di
pietra con i muri coperti di edera e i colori dell’arcobaleno dipinti sulle
alte vetrate.
Poco
lontano dalla cattedrale, in una grande casa bianca con i davanzali fioriti di
violette viveva una bambina, figlia di un grande pianista. Aveva lunghi capelli
neri, la pelle chiara come la luna e grandi occhi scuri che scrutavano il mondo
in silenzio.
La
sua sembrava davvero un’infanzia fatata, nutrita dall’amore e dalla musica di
un padre che, con il suo pianoforte, sapeva dare vita ad uno strano,
meraviglioso incantesimo.
Si
raccontava che quando la bambina era nata il pianista avesse sistemato la culla
accanto al lungo pianoforte a coda e che ogni notte, con un tocco leggero come
una carezza, avesse suonato solo per lei, le più dolci ninne nanne che il mondo
avesse mai sentito.
Poi
la bambina era cresciuta e con lei la bellezza della musica.
Nelle
calde giornate di primavera, quando le finestre della casa accanto alla
cattedrale venivano spalancate, il suono del pianoforte si disperdeva
nell’aria, scivolava per le vecchie strade della città ed entrava nelle case
della gente, portando con sé un tocco di magia. Allora i giardini fiorivano, i
vecchi si addormentavano sulle loro sedie a dondolo e i bambini smettevano di
litigare.
Ogni
giorno, per ore e ore, il pianista lasciava correre le sue lunghe dita sui
tasti del pianoforte e ogni giorno la sua musica raccontava una favola diversa.
Ma
c’era un cuore che il giovane pianista non sarebbe mai riuscito a sfiorare con
la sua musica.
Quello
della sua bambina.
La
figlia del più grande pianista del mondo non poteva sentire.
Il
suo mondo era e sarebbe sempre stato chiuso nel silenzio. Non avrebbe mai
sentito il rumore del vento o della pioggia, non avrebbe mai udito qualcuno
pronunciare il suo nome e mai, avrebbe sentito suo padre suonare per lei.
Eppure
ogni sera, la bambina si sedeva in cima alle scale e guardava le bellissime
mani del padre danzare sui tasti d’avorio, consapevole che stava accadendo
qualcosa di straordinario e di misterioso, capace di penetrare il cuore delle
persone e riempire i loro occhi di lacrime. Lo aveva visto accadere molte volte
e ogni volta aveva cercato nei loro occhi la chiave per poter accedere ad un
mondo che le era negato.
Ma
più di ogni altra cosa, la bambina desiderava poter cancellare il dolore dal
volto di suo padre quando lei si sedeva accanto a lui e sfiorava con la punta
delle dita i tasti muti del pianoforte. Allora lui le prendeva le mani tra le
sue, se le portava al cuore e scuoteva piano la testa per dirle che l’amava più
di ogni altra cosa al mondo e che se avesse potuto, avrebbe rinunciato al
talento che Dio gli aveva dato in cambio di un solo breve attimo in cui poterle
donare la sua musica.
Arrivò
l’autunno, poi l’inverno. I giardini sfiorirono, lo stagno al centro del parco
si ghiacciò poi, una mattina, come per magia, le violette sui davanzali della
grande casa bianca tornarono a sbocciare e la bambina che viveva in silenzio
spalancò tutte le finestre e regalò alla piccola città il primo incantesimo di
primavera.
Fu
quella primavera che la bambina conobbe il suo primo vero amico.
Fecero
lunghe passeggiate in riva al fiume, corsero tra i campi di grano e impararono
a parlare con il linguaggio segreto dei segni. Il ragazzo le insegnò il nome
dei fiori e degli animali, dei colori e delle stelle e, un giorno dopo l’altro,
la bambina imparò a conoscere quel mondo che fino ad allora era stato avvolto
dal mistero.
“Insegnami
cos’è la musica, “gli chiese un giorno.
Il
ragazzo sorrise. “La musica è emozione, “ disse, portandosi entrambe le mani al
cuore.
“E
a che cosa assomiglia?” chiese la bambina.
Il
ragazzo ci pensò su un po’, poi disse: “A una danza di colori”.
E
quella notte, quando il buio scese tra le strade della piccola città il ragazzo
entrò nella vecchia cattedrale, accese centinaia di candele dietro alle vetrate
e proiettò sul mondo la più bella danza di colori che si fosse mai vista.
Le
lasciò danzare tutta la notte, tre i rami degli alberi e le case, soffiando piano piano sulle tremolanti
fiammelle e quella notte svelò alla bambina il mistero della musica.
Il
giorno dopo una nuova luce illuminava gli occhi della bambina. “Raccontami il
rumore del vento”, lo pregò.
Allora
il ragazzo la portò in cima al campanile della cattedrale. “Chiudi gli occhi”,
le disse. “E lascia che il vento ti racconti le sue storie. Arrivano da così
lontano che nessuno di noi riesce veramente a sentirle. Alcune parole si
perdono negli oceani, altre sotto la pioggia, ma se chiudi gli occhi quelle
storie diventeranno parte di te.”
La
bambina chiuse gli occhi, allargò le braccia e cominciò a girare su se stessa
finché il vento non l’avvolse e allora lo sentì. Sentì le sue storie, centinaia di bisbigli
che arrivavano da luoghi e tempi troppo lontani per essere ricordati, ma sempre
vivi.
Fu
in cima a quel campanile che la bambina sentì che un giorno, da qualche parte,
forse molto lontano, il vento avrebbe raccontato anche la sua.
Poi
fu la volta dell’acqua.
Il
ragazzo la prese per mano e la condusse attraverso i campi di papaveri, fino al
bosco e là, oltre gli alberi, la bambina vide una grande, bellissima cascata.
“Togliti
le scarpe”, le disse il ragazzo con dolcezza.
La
bambina obbedì. Si slacciò le scarpe e quando appoggiò i piedi sull’erba sentì
il caldo rumore dell’acqua scorrere e pulsare sotto di lei. Chiuse gli occhi e sorrise.
Fu
così che, giorno dopo giorno, in quella calda e meravigliosa estate il ragazzo
raccontò alla bambina il misterioso mondo dei suoni. E lei imparò a sentire
quel mondo attraverso gli occhi, la pelle, i profumi e i sapori e, per la prima
volta in vita sua, fu davvero felice.
Poi
arrivò la fine dell’estate e il ragazzo sentì che era giunto il momento di
esaudire il più il grande sogno della bambina: poter ascoltare, per una volta
sola, la musica di suo padre.
Bussò
a tutte le porte della piccola città e prima ancora che il sole calasse, tutte
le persone cresciute e invecchiate con le magiche note del pianista stavano lavorando
per rendere possibile ciò che era impossibile. Furono raccolti migliaia di
sassolini, centinaia di lanterne piene di carta furono appese sotto salici
piangenti e sopra lo stagno venne costruito un grande arco di legno. I
falegnami lavorarono giorno e notte per ritagliare ottantotto minuscole
finestrelle sotto l’arco, le donne lo coprirono con una cascata di rose bianche
e quando tutto fu pronto il ragazzo andò dal pianista e gli disse che quella
sera, al tramonto, avrebbe suonato per sua figlia.
Il
lungo pianoforte a coda venne trasportato sul prato di fronte allo stagno e
ognuno degli ottantotto tasti di avorio venne pazientemente collegato con un
filo quasi invisibile alle finestrelle sotto l’arco. Poi furono accese le
lanterne, il pianista indossò il suo abito da concertista e solo quando il sole
cominciò a calare il ragazzo prese la bambina per mano e la portò allo stagno.
E
lì accadde l’impossibile.
Il
pianista si sedette al pianoforte, chiuse gli occhi e cominciò a suonare.
Appena
le sue dita sfiorarono la tastiera le finestrelle sotto l’arco si spalancarono
e, uno dopo l’altro, come polvere di stelle, i sassolini caddero nello stagno,
disegnando sulla superficie immobile dell’acqua una miriade di cerchi.
E,
quella sera, mentre il sole si tingeva di rosso, la bambina sentì davvero suo
padre suonare. Sentì l’intensità della sua musica danzare sull’acqua dello
stagno, il suo calore vibrare tra i lunghi rami dei salici piangenti e quando
la musica divenne un bisbiglio decine di lucciole furono liberate dalle mani
dei bambini.
Solo
allora il pianista si alzò.
Andò
incontro alla sua bambina, la prese per mano e, in un silenzio che nessuno
avrebbe mai dimenticato, padre e figlia cominciarono a ballare.
Quello
fu il più bel concerto per pianoforte mai scritto.
Centinaia
di mani avevano lavorato per renderlo possibile e ancora oggi, dopo tanto
tempo, il vento racconta, a chi lo sa ascoltare, di quella calda sera di fine
estate in cui un sogno impossibile diventò realtà.
Illustrazioni di Anna Bertenasco