Ci sono storie che non andrebbero mai
raccontate, storie sepolte da secoli negli abissi più profondi del mare per
proteggere e dimenticare dolori così tremendi da non poter essere sopportati.
Accade,
però, a volte, che durante le notti di eclisse totale, si apra un varco tra le
maree più buie e che una di queste storie venga restituita alla terra perché le
lacrime dei suoi abitanti possano lenire quel dolore che non troverà mai pace
ma che, per una notte sola, chiede di essere ascoltato.
C’era
una volta, in un punto sconosciuto dell’oceano, una piccola isola che profumava
di sabbia e fiori d’ibisco. I suoi abitanti avevano la pelle bruciata dal sole
e meravigliosi capelli di seta, neri come le notti senza luna.
Fu in una notte di tempesta che una giovane
sposa diede alla luce la sua bambina. La levatrice avvolse la minuscola
creatura in un lenzuolo, le coprì delicatamente il volto e con le lacrime agli
occhi la diede al padre perché facesse ciò che era giusto fare.
L’uomo si incamminò verso il mare, la
bambina stretta al petto e gli occhi rivolti al cielo per supplicare gli
spiriti della tempesta di portare sua figlia in un luogo capace di cancellare dal
suo corpo la sofferenza.
“Non farlo!” gridò la moglie, lasciandosi
cadere in ginocchio sulla sabbia.
L’uomo si voltò. “Ha i capelli bianchi”.
“Non importa”, pianse la giovane madre.
“I suoi occhi sono così chiari che il sole
la ucciderà”.
“La proteggeremo”.
“Questa bambina appartiene al mondo degli
spiriti. Qui troverà solo dolore”, disse l’uomo e l’affidò dolcemente alle onde.
La madre guardò il mare che inghiottiva la
sua creatura, poi con una forza che non sapeva di possedere, spinse via l’uomo
che aveva amato più della sua stessa vita e si buttò in acqua, urlando agli spiriti
della tempesta di concederle di vivere tanto a lungo quanto sarebbe vissuta
la sua bambina.
“Altrimenti”, pregò, “lasciatemi morire con
lei ora”.
All’improvviso il mare si calmò, le acque
si ritirarono e in quella notte senza luna la donna prese tra le braccia una
creatura di cui non aveva ancora visto il volto ma che sapeva di non poter fare
a meno di amare.
Il giorno dopo, la giovane madre nascose la
bambina in un cesto, raccolse le poche cose che le appartenevano e fece ciò che
nessuno le aveva chiesto, ma che tutti si aspettavano che facesse: lasciò la sua casa, i suoi affetti e
si incamminò verso l’altra parte dell’isola senza più voltarsi indietro.
Lavorò senza sosta, per settimane, nella
parte più buia del promontorio, perché la sua casa sorgesse là dove gli alberi avrebbero nascosto la bambina dal sole e dal
resto del mondo.
“Arriverai a odiarci”, sussurrarono gli
spiriti delle fronde.
“Guarderò il mare”, rispose la giovane
madre.
“Non
hai ancora guardato lei.”
“Quando
sarò pronta, lo farò.”
Ma il tempo passò e la giovane madre imparò a
conoscere e ad amare la sua bambina attraverso le mani, sfiorando con dolcezza
i lineamenti del suo volto nell’oscurità delle notti e stringendo a sé, nel
sonno che sfuggiva alla luce impietosa del sole, quel corpo che non avrebbe mai
visto il giorno.
Fu così che, nella piccola capanna sul
promontorio, per amore di una bambina, si capovolse il corso della vita. In
principio sembrò la sola cosa giusta da fare, ma con il passare dei mesi la
giovane donna cominciò a deperire. Il buio la privò di tutto ciò che fino ad
allora aveva dato senso alla sua vita.
La sua pelle divenne grigia e grigi divennero anche i suoi capelli.
Fu allora che la giovane donna cucì per sua
figlia un sacco di tela robusta e, per
la prima volta da quando era nata, la portò alla luce. Seduta di fronte al mare
scintillante, con la bambina incappucciata tra le braccia, la madre pianse.
Poi, lentamente, il tempo riprese a scorrere.
La donna costruì una barca, recintò l’orto
e quando la bambina cominciò a crescere e a diventare pesante, intrecciò
pazientemente dei giunchi che le permettessero di legarla alla schiena. Imparò
ad ignorare la stanchezza e la fatica e, col tempo, imparò a dimenticarsi il
passato.
Ma arrivò il giorno in cui una terribile
tempesta si abbattè sull’isola. La donna rimase a fissare l’oceano dalla cima
del promontorio, chiedendosi se gli spiriti del mare fossero venuti a prendere
lei e la bambina.
Si presero invece l’umile capanna, la barca
e l’orto.
Quando la tempesta si placò la giovane
donna non aveva più niente. E per la prima volta ebbe davvero paura. Cominciò a
suonare il tamburo, più forte che poteva, giorno e notte, notte e giorno, senza
mai fermarsi, fino a quando le sue mani cominciarono a sanguinare e, neppure
allora, si arrese.
Quel tamburo sul promontorio suonò per
un’intera luna, riportando in vita gli spiriti della vergogna che, notte dopo notte,
si fecero strada attraverso l’isola per entrare nelle case della gente,
impossessandosi dei loro sogni e nutrendosi del loro sonno.
Ma quel richiamo disperato si perse nel
silenzio.
Quando la giovane madre capì che nessuno
l’avrebbe mai aiutata squarciò il tamburo, prese la bambina e con lei si
incamminò verso l’acqua nera dell’oceano.
E lì, sotto una pioggia battente, urlò, il
volto rivolto al cielo e, un passo dopo l’altro, andò incontro alle onde,
chiedendo perdono alla bambina che non aveva mai visto e che senza sole era
destinata a non diventare mai grande. La spinse dolcemente sott’acqua e per un
breve istante vide ciò che sarebbe stata la sua vita senza di lei: avrebbe
avuto altri figli, una casa luminosa e voci…
voci ovunque, capaci di ridarle ciò che anni di solitudine e silenzio le
avevano rubato.
Fu
allora che dall’acqua si levò un bisbiglio e quel bisbiglio crebbe e si
moltiplicò fino a diventare il canto più bello e triste che si fosse mai
sentito. La donna sollevò la bambina dall’acqua, con il cuore che le martellava
in petto, improvvisamente consapevole di ciò che stava
facendo e giurò a se stessa che mai più… mai più
avrebbe permesso alla disperazione e alla paura di piegarla.
Da quel giorno, per molti anni, ogni volta
che la giovane donna cedeva allo sconforto e alla solitudine, quel canto
tornava a riempire l’aria.
Passarono tempeste e stagioni di siccità
senza che lei si arrendesse. Con la figlia sempre legata alla schiena fece la
sola cosa che poteva: visse.
Poi, un po’ per volta, cominciò a
invecchiare.
Rughe sempre più profonde solcarono il suo
viso e le sue mani divennero nodose. Ogni notte, al buio, toglieva il cappuccio
di tela alla figlia, le pettinava senza fretta i lunghi capelli e si
addormentava tenendo stretto accanto a sé quel corpo ancora esile, fino
all’alba.
Anno dopo anno, la sua vita fu scandita
dall’alternarsi sempre uguale delle stagioni e dal ripetersi delle piccole cose
che le costavano sempre più fatica. Poi, quando pensava di non farcela più,
sentiva quel canto che accarezzava l’anima,
e ancora una volta trovava la forza di andare avanti.
Lo fece per quasi duecento anni.
Poi, una sera, mentre risaliva il promontorio,
udì il respiro della figlia spegnersi lentamente e seppe, con assoluta
certezza, che gli spiriti della tempesta erano venuti a prenderla. La portò in
casa e la cullò, così come aveva fatto per quasi due secoli, sopraffatta da un
dolore che non avrebbe mai creduto possibile.
Solo a notte fonda, quando fu pronta, la
donna prese in braccio il corpo della
figlia e lo portò verso l’oceano. E fu lì, sotto il tenue chiarore della luna, che
le tolse il cappuccio.
Lunghe ciocche chiare come il grano si
aprirono nell’acqua e il volto assolutamente perfetto di una bambina con la
pelle bianca si impresse nello sguardo impietrito della madre. Forse non era
fatta per vivere alla luce del sole, ma quella bambina non era mai appartenuta
al mondo degli spiriti.
La donna gridò la propria disperazione,
stringendo al petto una creatura che il mondo aveva rifiutato e che era stata solo
sua per tanto tanto tempo, poi, con gli occhi ormai ciechi per il dolore, si
inabissò con lei nell’oceano.
In memoria di una bambina e di una madre , la cui storia non andrà mai perduta
Tutti i diritti riservati Claudia Mancino
Illustrazione Anna Bertenasco