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venerdì 30 ottobre 2015

C'era una volta...

Prendimi per mano e raccontami una storia...

Per aprire ogni storia ed entrare nel suo mondo basta un click sul titolo.
Ora, senza fretta, inizia il tuo viaggio. Buona lettura!
Claudia


Il bambino che fermò il tempo

C'era una volta un bambino che non possedeva nulla se non i poveri vestiti che indossava e una strana piccola moneta che luccicava anche quando tutto intorno era buio...
Da quel giorno nevicò per moltissimo tempo. Fece freddo così a lungo che un po' per volta le persone smisero di sorridere. In quella città senza tempo...






C'era una volta, tanto tempo fa, in un paese molto lontano, una piccola città che si preparava a festeggiare il Natale. Le strade erano illuminate da grandi lampioni di ferro battuto e sui rami di ogni albero erano stati legati fiocchi rossi e stelle d'oro.







La strada del vento

... nessuno aveva mai capito cosa gli passasse per la testa e fin da quando era piccolo, gli adulti non avevano fatto che domandargli: "Un soldo per i tuoi pensieri", sapendo esattamente che lui non avrebbe mai dato loro una risposta...














Il mondo di Mathilda

"Diventerai di ghiaccio", tuonò la regina. "E affinchè il tuo corpo non si sciolga ai raggi del sole, sarà imprigionato in una statua di pietra. Ma i tuoi occhi, quelli rimarranno vivi perchè tu possa vedere il Principe innamorarsi di un'altra donna, sposarla e invecchiare accanto a lei!"





... ma c'era un cuore che il giovane padre non sarebbe mai riuscito a sfiorare con la sua musica. Quello della sua bambina.
La figlia del più grande pianista del mondo non poteva sentire.







Figlia del vento

Molti anni fa, in una terra solitaria e lontana, viveva una ragazza di cui nessuno aveva mai saputo il nome. Si diceva che fosse figlia del vento e che nessun uomo o donna o bambino potesse guardarla a lungo senza piangere...






 

C'era una volta uno strano paese in cui nessuno invecchiava. I bambini nascevano, crescevano, diventavano adulti e  poi... poi il tempo sembrava semplicemente fermarsi. Accadde che la parola vecchio cominciasse a essere pronunciata solo sottovoce, i bambini smisero di sentire storie di altri tempi e crebbero perdendo ogni legame col passato...




 

 Accadde lentamente, molti anni prima che nascessimo. Iniziò dalle strade e dalle piazze, poi fu la volta delle case e dei negozi e infine... infine toccò alle persone. Ogni singola cosa in quello strano paese era diventata stretta.







C'era una volta, nella Parigi delle carrozze e degli strilloni, una piccola e graziosa bottega che confezionava abiti molto speciali... e mentre le mani della sartina imbastivano e cucinano, i suoi occhi osservavano la vita che scorreva al di là del vetro appannato.







C'era una volta, in un punto sconosciuto dell'oceano, una piccola isola che profumava di sabbia e fiori d'ibisco. Fu in una notte di tempesta che una giovane sposa diede alla luce la sua bambina... e per proteggerla, fermò il tempo e capovolse il corso della sua vita.









Racconti lunghi


Senza rumore

Guidai incontro al tramonto, respirando l’aria incontaminata dell’oceano e cantando sottovoce una canzone che fino ad allora non avevo permesso a me stessa di ricordare. Guidai sotto quel cielo spaccato in due, lo sguardo fisso sulle lame di luce che si stagliavano tra le nubi troppo basse, quasi a volermi indicare l’accesso ad un altro mondo.
Poi lo vidi. L’oceano. Immenso e sconfinato.





La sola cosa che riuscivo a pensare era che ancora una volta nevicava. Volsi lo sguardo al cielo scuro come la pece e fissai, incredula, lo spettacolo più bello che avessi mai visto. Migliaia di fiocchi di neve che venivano verso di me, in mezzo al nulla. Respirai a fondo, chiedendomi per quale strana ragione le cose più semplici riuscivano sempre, nonostante tutto, a spalancarmi il cuore.





ll tempo lo puoi fermare anche tu. Solo pochi secondi. Regala un voto a questo blog o lascia un commento.
Alla prossima storia.
Claudia


venerdì 9 ottobre 2015

Once upon a time...


Work in progress... ora bisogna scegliere quali fiabe far tradurre in inglese e vorrei chiedere a voi lettori di aiutarmi, indicandomi la storia che più avete amato tra quelle che avete letto. 

Work in progress... what about having the fairy tales translated in English? You are so many, from all countries around the world, so I will ask you to help me to choose the first story that will be transalted for you.

Grazie di cuore e sappiate che la prossima storia è in fase di creazione. Invidio chi scrive di getto, ma non appartengo a quella categoria di scrittori forse perché le parole sono per me come note musicali. Hanno bisogno di ritmo, timbro, melodia. Senza, non esiste armonia.

I am working on the next story. Please be patient. I envy those who write fast, but I do not belong to that class of writers. Words are, for me, like musical notes. They need rhythm, tone, melody. Without, there is no harmony.




domenica 7 giugno 2015

Filo d'argento

                                                       


C’era una volta, nella Parigi delle carrozze e degli strilloni, una piccola e graziosa bottega che confezionava abiti molto speciali.
   A renderli tali erano le mani di una sartina non più giovane che sapeva tagliare, cucire e ricamare con una grazia e un talento che poche persone al mondo possedevano.
   Un tempo era stata bella come le signore che varcavano la porta della sartoria,  forse non ricca ed elegante come loro, ma bella sì!
   Da allora erano passati molti anni e, come spesso accade, il tempo aveva spruzzato d’argento i suoi capelli e sbiadito i ricordi di una vita che non le apparteneva più.
   Il piccolo retrobottega del negozio era diventato il suo mondo, la sua finestra segreta su quella città che ogni mattina si svegliava per raccontare centinaia di storie che lei amava ascoltare.
   E mentre le mani della sartina imbastivano e cucivano, i suoi occhi osservavano la vita che scorreva al di là del vetro appannato.
  Il garzone del fornaio che correva per non arrivare tardi la lavoro e che ogni mattina inciampava nello stesso gradino facendo volare per aria quei libri da cui non riusciva a separarsi. La fioraia che sistemava tulipani e rose in vetrina, cercando di nascondere agli occhi della gente le sue mani nodose e segnate da graffi che non sarebbero mai guariti. Il giovane padre che accompagnava in silenzio i suoi bambini a scuola, cercando di celare dietro un sorriso lo sguardo immensamente triste di un uomo solo.
   Giorno dopo giorno, le persone che animavano quell’angolo di mondo oltre la finestra, erano diventate parte della sua vita.  E così come aveva sempre fatto, all’interno di ogni abito confezionato per loro, Josephine ricamava la propria iniziale con un suo capello d’argento, sperando che quell’invisibile gesto d’amore avrebbe portato loro un po’ di felicità.
   Negli anni, ognuno di quei capelli d’argento portò all’avverarsi di un sogno creduto impossibile. Ed era questa la vera felicità di Josephine.
   Fu così che in un giorno come tanti altri, il padre rimasto solo a crescere i suoi figli, incontrò una bellissima donna e se ne innamorò perdutamente e che qualche tempo dopo il garzone distratto inciampò in un distinto signore che, commosso dalla sete di sapere del giovane, decise di prenderlo sotto la sua ala e pagargli un’istruzione che gli avrebbe permesso di cambiare vita.
   Senza mai uscire dall’ombra, Josephine donò la felicità a molte più persone di quante potesse immaginare.
   Non aveva mai chiesto o desiderato una vita diversa da quella che aveva. Le bastava la piccola bottega all’angolo della strada, abbastanza legna per scaldarsi nelle gelide notti invernali e quella felicità semplice, fatta di piccole cose come il profumo di cioccolata calda o il sorriso di una cliente quando le consegnava l’abito che aveva sognato.

   Cominciò un autunno, quasi senza che se ne accorgesse. Un volto imbarazzato che prometteva di pagare l’abito non appena avesse avuto i soldi, occhi tristi che chiedevano di poter acquistare un cappotto per il figlio, pagandolo un po’ per volta e a ognuno di loro Josephine disse di sì, certa della loro bontà e onestà. Aveva visto periodi più bui, durante i lunghi anni della guerra, e ricordava la fame e la disperazione. Forse proprio per questo Josephine non riuscì a negare il suo aiuto a nessuno.  
    Poi arrivò il vento del nord e la neve. Cominciò a mancare la legna per scaldarsi e come spesso accade, la spirale della povertà inghiottì i più deboli e spaventò i più ricchi. Ma se i primi cercarono di saldare i loro debiti con quel poco che possedevano, gli ultimi presero tempo, senza rendersi conto che la povertà si nutre del tempo come il fuoco dell’aria.
   Josephine smise di comprare le stoffe più belle, e un po’ per volta la bottega si svuotò delle clienti più facoltose. Le sole stoffe che poteva permettersi non erano alla loro altezza.
   Fu la  prima volta che Josephine, mortificata dalla vergogna e dall’imbarazzo, si trovò a chiedere loro di saldare il debito. Naturalmente, e non senza un certo fastidio, le fu promesso che l’indomani l’autista o la cameriera avrebbe provveduto a recapitarle quanto dovuto.
   Ma i giorni passarono e nessun autista bussò alla sua porta.
  Ciò però non impedì loro di continuare a mandare a Josephine i loro eleganti capi da stringere, allargare e impreziosire con un ricamo. E ancora una volta Josephine confidò nella loro onestà, sapendo che anche una sola moneta d’argento avrebbe fatto la differenza.
   Invece la bottega cominciò a diventare sempre più fredda e quando anche il filo per cucire finì, Josephine fece la sola cosa che poteva fare: si strappò alcuni dei suoi lunghi capelli d’argento e li usò per terminare il lavoro.
   Lavorò incessantemente notte e giorno, al lume di candela e al freddo, ripetendosi che prima o poi l’inverno sarebbe finito e che la primavera avrebbe reso tutto più facile.
    Passò il Natale e passarono i giorni della merla. Quella che una volta era la lunga e folta chioma d’argento di Josephine ora somigliava a uno spolverino. Sarebbero passati anni prima che i capelli ricrescessero abbastanza da poterli usare come filo da cucire. Smagrita in volto e pallida per le notti passate insonni, Josephine vinse la vergogna e, per la prima volta dopo anni, uscì dalla sua bottega per andare a bussare alle porte di chi l’aveva ridotta in povertà. E fu quel giorno che scoprì l’umiliazione del dover chiedere ciò che era sempre stato suo. Ogni moneta che cadeva nella sua mano, bruciava come il fuoco e ogni sguardo di pietà mista a irritazione, era un ago piantato nel cuore.
   Quel giorno raccolse 24 monete d’argento, abbastanza per poter comprare un bel taglio di stoffa e una cassetta di fili nuovi, ma non per cancellare l’umiliazione e gli stenti di quel lunghissimo inverno.
   Sotto il peso di una stanchezza mai provata prima, tornò alla bottega e per diversi giorni rimase a guardare il mondo fuori dalla sua finestra, ricordando gli anni in cui quelle stesse strade erano animate dalle voci e dalle risate delle brave persone. L’ombra della fame e della povertà aveva spento molto più del fuoco nei camini. 
    Fu all’alba del terzo giorno che Josephine seppe cosa doveva fare. Prese l’ultimo vecchio scampolo di stoffa dal cesto e cucì un caldo manicotto per la fioraia. Al suo interno, ricamò la propria iniziale con ciò che rimaneva della sua lunga chioma. Lasciò sul tavolo da lavoro le 24 monete d’argento e dopo aver consegnato il pacchetto al postino, s’incamminò lentamente lungo la strada che portava fuori dalla città.
    Le monete furono trovate molte settimane dopo.
    Nessuno si era accorto della scomparsa della sartina che aveva sempre vissuto nell’ombra fino al giorno in cui le cuciture degli abiti confezionati nella fredda disperazione di quell’inverno, e mai pagati, presero misteriosamente fuoco, lasciando sulla pelle di chi li indossava un minuscolo marchio d’infamia mentre gli abiti che portavano al loro interno l’iniziale ricamata di Josephine, simbolo di una bontà che non chiedeva nulla in cambio, hanno varcato oceani e cime innevate di tutto il mondo mantenendo nei secoli, il loro dono più prezioso: portare, a chi li indossa, la felicità.
         Dedicata a tutti coloro che hanno il coraggio dell’onestà


                          Tutti i diritti riservati Claudia Mancino
                             Illustrazione di Filippa Firriolo

mercoledì 27 maggio 2015

Brutta

                           

Ci sono storie che non andrebbero mai raccontate, storie sepolte da secoli negli abissi più profondi del mare per proteggere e dimenticare dolori così tremendi da non poter essere sopportati.
  Accade, però, a volte, che durante le notti di eclisse totale, si apra un varco tra le maree più buie e che una di queste storie venga restituita alla terra perché le lacrime dei suoi abitanti possano lenire quel dolore che non troverà mai pace ma che, per una notte sola, chiede di essere ascoltato.

   C’era una volta, in un punto sconosciuto dell’oceano, una piccola isola che profumava di sabbia e fiori d’ibisco. I suoi abitanti avevano la pelle bruciata dal sole e meravigliosi capelli di seta, neri come le notti senza luna.
Fu in una notte di tempesta che una giovane sposa diede alla luce la sua bambina. La levatrice avvolse la minuscola creatura in un lenzuolo, le coprì delicatamente il volto e con le lacrime agli occhi la diede al padre perché facesse ciò che era giusto fare.
L’uomo si incamminò verso il mare, la bambina stretta al petto e gli occhi rivolti al cielo per supplicare gli spiriti della tempesta di portare sua figlia in un luogo capace di cancellare dal suo corpo la sofferenza.
“Non farlo!” gridò la moglie, lasciandosi cadere in ginocchio sulla sabbia.
L’uomo si voltò. “Ha i capelli bianchi”.
“Non importa”, pianse la giovane madre.
“I suoi occhi sono così chiari che il sole la ucciderà”.
“La proteggeremo”.
“Questa bambina appartiene al mondo degli spiriti. Qui troverà solo dolore”, disse l’uomo e  l’affidò dolcemente alle onde.
La madre guardò il mare che inghiottiva la sua creatura, poi con una forza che non sapeva di possedere, spinse via l’uomo che aveva amato più della sua stessa vita e si buttò in acqua, urlando agli spiriti della tempesta di concederle di vivere tanto a lungo quanto sarebbe vissuta la sua bambina.
“Altrimenti”, pregò, “lasciatemi morire con lei ora”.
All’improvviso il mare si calmò, le acque si ritirarono e in quella notte senza luna la donna prese tra le braccia una creatura di cui non aveva ancora visto il volto ma che sapeva di non poter fare a meno di amare.
  Il giorno dopo, la giovane madre nascose la bambina in un cesto, raccolse le poche cose che le appartenevano e fece ciò che nessuno  le aveva chiesto,  ma che tutti si aspettavano che  facesse: lasciò la sua casa, i suoi affetti e si incamminò verso l’altra parte dell’isola senza più voltarsi indietro.
   Lavorò senza sosta, per settimane, nella parte più buia del promontorio, perché la sua casa sorgesse là dove gli alberi   avrebbero nascosto la bambina dal sole e dal resto del mondo. 
   “Arriverai a odiarci”, sussurrarono gli spiriti delle fronde.
   “Guarderò il mare”, rispose la giovane madre.
   “Non hai ancora guardato lei.”
   “Quando sarò pronta, lo farò.”
  Ma il tempo passò e la giovane madre imparò a conoscere e ad amare la sua bambina attraverso le mani, sfiorando con dolcezza i lineamenti del suo volto nell’oscurità delle notti e stringendo a sé, nel sonno che sfuggiva alla luce impietosa del sole, quel corpo che non avrebbe mai visto il giorno.
Fu così che, nella piccola capanna sul promontorio, per amore di una bambina, si capovolse il corso della vita. In principio sembrò la sola cosa giusta da fare, ma con il passare dei mesi la giovane donna cominciò a deperire. Il buio la privò di tutto ciò che fino ad allora aveva dato senso alla sua vita.
La sua  pelle divenne  grigia  e grigi divennero anche i suoi capelli.
Fu allora che la giovane donna cucì per sua figlia un sacco  di tela robusta e, per la prima volta da quando era nata, la portò alla luce. Seduta di fronte al mare scintillante, con la bambina incappucciata tra le braccia, la madre pianse.
Poi, lentamente, il tempo riprese a scorrere.
La donna costruì una barca, recintò l’orto e quando la bambina cominciò a crescere e a diventare pesante, intrecciò pazientemente dei giunchi che le permettessero di legarla alla schiena. Imparò ad ignorare la stanchezza e la fatica e, col tempo, imparò a dimenticarsi il passato.
Ma arrivò il giorno in cui una terribile tempesta si abbattè sull’isola. La donna rimase a fissare l’oceano dalla cima del promontorio, chiedendosi se gli spiriti del mare fossero venuti a prendere lei e la bambina.
Si presero invece l’umile capanna, la barca e l’orto.
Quando la tempesta si placò la giovane donna non aveva più niente. E per la prima volta ebbe davvero paura. Cominciò a suonare il tamburo, più forte che poteva, giorno e notte, notte e giorno, senza mai fermarsi, fino a quando le sue mani cominciarono a sanguinare e, neppure allora, si arrese.
Quel tamburo sul promontorio suonò per un’intera luna, riportando  in vita  gli spiriti  della vergogna che,  notte dopo notte, si fecero strada attraverso l’isola per entrare nelle case della gente, impossessandosi dei loro sogni e nutrendosi del loro sonno.
   Ma quel richiamo disperato si perse nel silenzio.
Quando la giovane madre capì che nessuno l’avrebbe mai aiutata squarciò il tamburo, prese la bambina e con lei si incamminò verso l’acqua nera dell’oceano.
E lì, sotto una pioggia battente, urlò, il volto rivolto al cielo e, un passo dopo l’altro, andò incontro alle onde, chiedendo perdono alla bambina che non aveva mai visto e che senza sole era destinata a non diventare mai grande. La spinse dolcemente sott’acqua e per un breve istante vide ciò che sarebbe stata la sua vita senza di lei: avrebbe avuto altri figli, una casa luminosa e voci…  voci ovunque, capaci di ridarle ciò che anni di solitudine e silenzio le avevano rubato.
 Fu allora che dall’acqua si levò un bisbiglio e quel bisbiglio crebbe e si moltiplicò fino a diventare il canto più bello e triste che si fosse mai sentito. La donna sollevò la bambina dall’acqua, con il cuore che le martellava in petto, improvvisamente  consapevole  di  ciò  che  stava  facendo  e giurò a se stessa che mai più… mai più avrebbe permesso alla disperazione e alla paura di piegarla.
Da quel giorno, per molti anni, ogni volta che la giovane donna cedeva allo sconforto e alla solitudine, quel canto tornava a riempire l’aria.
Passarono tempeste e stagioni di siccità senza che lei si arrendesse. Con la figlia sempre legata alla schiena fece la sola cosa che poteva: visse.
Poi, un po’ per volta, cominciò a invecchiare.
Rughe sempre più profonde solcarono il suo viso e le sue mani divennero nodose. Ogni notte, al buio, toglieva il cappuccio di tela alla figlia, le pettinava senza fretta i lunghi capelli e si addormentava tenendo stretto accanto a sé quel corpo ancora esile, fino all’alba.
Anno dopo anno, la sua vita fu scandita dall’alternarsi sempre uguale delle stagioni e dal ripetersi delle piccole cose che le costavano sempre più fatica. Poi, quando pensava di non farcela più, sentiva quel canto che  accarezzava l’anima, e ancora una volta trovava la forza di andare avanti.
Lo fece per quasi duecento anni.
Poi, una sera, mentre risaliva il promontorio, udì il respiro della figlia spegnersi lentamente e seppe, con assoluta certezza, che gli spiriti della tempesta erano venuti a prenderla. La portò in casa e la cullò, così come aveva fatto per quasi due secoli, sopraffatta da un dolore che non avrebbe mai creduto possibile.
   Solo a notte fonda, quando fu pronta, la donna  prese in braccio il corpo della figlia e lo portò verso l’oceano. E fu lì, sotto il tenue chiarore della luna, che le tolse il cappuccio.
Lunghe ciocche chiare come il grano si aprirono nell’acqua e il volto assolutamente perfetto di una bambina con la pelle bianca si impresse nello sguardo impietrito della madre. Forse non era fatta per vivere alla luce del sole, ma quella bambina non era mai appartenuta al mondo degli spiriti.
La donna gridò la propria disperazione, stringendo al petto una creatura che il mondo aveva rifiutato e che era stata solo sua per tanto tanto tempo, poi, con gli occhi ormai ciechi per il dolore, si inabissò con lei nell’oceano.


In memoria di una bambina e di una madre , la cui storia non andrà mai perduta

Tutti i diritti riservati Claudia Mancino
Illustrazione Anna Bertenasco