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venerdì 30 ottobre 2015

C'era una volta...

Prendimi per mano e raccontami una storia...

Per aprire ogni storia ed entrare nel suo mondo basta un click sul titolo.
Ora, senza fretta, inizia il tuo viaggio. Buona lettura!
Claudia


Il bambino che fermò il tempo

C'era una volta un bambino che non possedeva nulla se non i poveri vestiti che indossava e una strana piccola moneta che luccicava anche quando tutto intorno era buio...
Da quel giorno nevicò per moltissimo tempo. Fece freddo così a lungo che un po' per volta le persone smisero di sorridere. In quella città senza tempo...






C'era una volta, tanto tempo fa, in un paese molto lontano, una piccola città che si preparava a festeggiare il Natale. Le strade erano illuminate da grandi lampioni di ferro battuto e sui rami di ogni albero erano stati legati fiocchi rossi e stelle d'oro.







La strada del vento

... nessuno aveva mai capito cosa gli passasse per la testa e fin da quando era piccolo, gli adulti non avevano fatto che domandargli: "Un soldo per i tuoi pensieri", sapendo esattamente che lui non avrebbe mai dato loro una risposta...














Il mondo di Mathilda

"Diventerai di ghiaccio", tuonò la regina. "E affinchè il tuo corpo non si sciolga ai raggi del sole, sarà imprigionato in una statua di pietra. Ma i tuoi occhi, quelli rimarranno vivi perchè tu possa vedere il Principe innamorarsi di un'altra donna, sposarla e invecchiare accanto a lei!"





... ma c'era un cuore che il giovane padre non sarebbe mai riuscito a sfiorare con la sua musica. Quello della sua bambina.
La figlia del più grande pianista del mondo non poteva sentire.







Figlia del vento

Molti anni fa, in una terra solitaria e lontana, viveva una ragazza di cui nessuno aveva mai saputo il nome. Si diceva che fosse figlia del vento e che nessun uomo o donna o bambino potesse guardarla a lungo senza piangere...






 

C'era una volta uno strano paese in cui nessuno invecchiava. I bambini nascevano, crescevano, diventavano adulti e  poi... poi il tempo sembrava semplicemente fermarsi. Accadde che la parola vecchio cominciasse a essere pronunciata solo sottovoce, i bambini smisero di sentire storie di altri tempi e crebbero perdendo ogni legame col passato...




 

 Accadde lentamente, molti anni prima che nascessimo. Iniziò dalle strade e dalle piazze, poi fu la volta delle case e dei negozi e infine... infine toccò alle persone. Ogni singola cosa in quello strano paese era diventata stretta.







C'era una volta, nella Parigi delle carrozze e degli strilloni, una piccola e graziosa bottega che confezionava abiti molto speciali... e mentre le mani della sartina imbastivano e cucinano, i suoi occhi osservavano la vita che scorreva al di là del vetro appannato.







C'era una volta, in un punto sconosciuto dell'oceano, una piccola isola che profumava di sabbia e fiori d'ibisco. Fu in una notte di tempesta che una giovane sposa diede alla luce la sua bambina... e per proteggerla, fermò il tempo e capovolse il corso della sua vita.









Racconti lunghi


Senza rumore

Guidai incontro al tramonto, respirando l’aria incontaminata dell’oceano e cantando sottovoce una canzone che fino ad allora non avevo permesso a me stessa di ricordare. Guidai sotto quel cielo spaccato in due, lo sguardo fisso sulle lame di luce che si stagliavano tra le nubi troppo basse, quasi a volermi indicare l’accesso ad un altro mondo.
Poi lo vidi. L’oceano. Immenso e sconfinato.





La sola cosa che riuscivo a pensare era che ancora una volta nevicava. Volsi lo sguardo al cielo scuro come la pece e fissai, incredula, lo spettacolo più bello che avessi mai visto. Migliaia di fiocchi di neve che venivano verso di me, in mezzo al nulla. Respirai a fondo, chiedendomi per quale strana ragione le cose più semplici riuscivano sempre, nonostante tutto, a spalancarmi il cuore.





ll tempo lo puoi fermare anche tu. Solo pochi secondi. Regala un voto a questo blog o lascia un commento.
Alla prossima storia.
Claudia


venerdì 9 ottobre 2015

Once upon a time...


Work in progress... ora bisogna scegliere quali fiabe far tradurre in inglese e vorrei chiedere a voi lettori di aiutarmi, indicandomi la storia che più avete amato tra quelle che avete letto. 

Work in progress... what about having the fairy tales translated in English? You are so many, from all countries around the world, so I will ask you to help me to choose the first story that will be transalted for you.

Grazie di cuore e sappiate che la prossima storia è in fase di creazione. Invidio chi scrive di getto, ma non appartengo a quella categoria di scrittori forse perché le parole sono per me come note musicali. Hanno bisogno di ritmo, timbro, melodia. Senza, non esiste armonia.

I am working on the next story. Please be patient. I envy those who write fast, but I do not belong to that class of writers. Words are, for me, like musical notes. They need rhythm, tone, melody. Without, there is no harmony.




sabato 23 maggio 2015

Le chiavi del tempo





C’era una volta uno strano paese in cui nessuno invecchiava.
I bambini nascevano, crescevano, diventavano adulti e poi… poi il tempo sembrava semplicemente fermarsi.
Non pensiate, però, che i suoi abitanti vivessero in eterno. Come in ogni altro posto del mondo arrivava il momento in cui erano destinati a passare a miglior vita. Ma lo facevano senza portare sul corpo e sul volto i segni del tempo.
Cominciamo dal giorno in cui tutto ebbe inizio.
Era l’inverno di molti anni prima quando da un treno proveniente da lontano scese una donna di straordinaria bellezza. Indossava un elegante abito confezionato su misura, un cappello a tesa larga e nella mano destra stringeva con forza il manico di una valigia le cui dimensioni superavano quelle di qualunque altra vista fino ad allora.

Congedò il facchino con un garbato sorriso e rifiutò l’aiuto del cocchiere. Sollevò la valigia con grande attenzione, la sistemò sulla carrozza e quando, dieci minuti dopo, il cocchiere si fermò davanti alla vecchia casa in fondo al paese, una lunga e gelida folata di vento accompagnò l’ingresso della misteriosa donna in quella che sarebbe stata la sua casa.
Da quel giorno, per molte settimane, dall’interno della casa in fondo al paese giunse solo il rumore di seghe e martelli, poi una mattina d’inizio primavera i teli che nascondevano la facciata furono tolti e sopra l’ingresso di quello che era diventato un elegante negozio campeggiava l’insegna:
“Belle per sempre”
Non ci volle molto tempo perché le signore del paese cominciassero a frequentare il nuovo salone di bellezza, attirate dal profumo esotico che usciva dalle finestre appena socchiuse e dal fascino della misteriosa donna del treno.
Chiunque varcasse quella soglia, ne usciva poi con una luce diversa negli occhi. E un po’ per volta, qualunque fosse il segreto custodito tra le mura del negozio, i cambiamenti sul volto delle clienti cominciarono a farsi evidenti. Là dove i segni del tempo disegnavano la storia di una vita, la pelle risplendeva di una nuova giovinezza e mani che raccontavano anni di duro lavoro tornarono belle come quelle di un tempo.
Accadde lentamente. Mese dopo mese, anno dopo anno, una parte delle popolazione smise semplicemente di invecchiare e, com’era prevedibile, la voglia di tornare giovani contagiò tutti, senza distinzione di sesso ed età.
Accadde anche che la parola vecchio cominciò a essere pronunciata solo sottovoce. I pochi anziani rimasti venivano guardati con diffidenza e pietà e arrivò il momento in cui un’intera nuova generazione di bambini crebbe senza mai vederne uno. I nonni smisero di farsi chiamare nonni e per non tradire la loro vera età, cancellarono dalla memoria anche le tracce della loro vita passata.
Così i bambini smisero di sentire storie di altri tempi e, per la prima volta da millenni, crebbero perdendo ogni legame con il passato.
Consapevoli o no, gli adulti avevano spezzato la catena del tempo per pura vanità.
E una a una, come le tessere del domino, caddero e andarono perse parole come saggezza, solitudine, fragilità, annegate per sempre insieme al loro significato.
In quel mondo in cui l’unica cosa importante era apparire, il tempo si dilatò e si confuse ancorandosi all’unica certezza rimasta: il negozio in fondo alla strada. Ogni singolo bambino che cresceva in quel paese sapeva di essere destinato a varcare quella soglia appena diventato grande.
Ciò che gli adulti di allora non avevano messo in conto era che senza passato i loro bambini sembravano incapaci di immaginare un futuro. Tutto ciò che esisteva, che li circondava, non era più frutto di qualche straordinaria invenzione o di esperienze tramandate di generazione in generazione. Esisteva e basta.
Così, un po’ per volta, in un mondo in cui nessuno dava più risposte, scomparvero anche le domande e il negozio in fondo alla strada inghiottì anche la curiosità.
In un paese in cui non esisteva più un passato con cui misurarsi, il presente divenne semplicemente attesa.
Fu solo molti anni dopo l’arrivo della misteriosa donna che, in un giorno di fine estate, dal treno scese un’altra donna. Indossava un vestito nero, un cappello a tesa larga e una veletta che le copriva il volto.
Centinaia di occhi la seguirono in silenzio.
Nessun estraneo aveva più messo piede in quel luogo senza tempo da anni. I suoi abitanti avevano cancellato ogni traccia della loro esistenza persino dalle mappe.
Proteggere il loro segreto era diventato più importante dell’aria che respiravano.
Chiunque fosse la donna vestita di nero non avrebbe mai dovuto scendere da quel treno.
Fu sotto quei muti sguardi di pietra che la donna senza volto attraversò le strade del paese, risalì la collina e prese possesso di una vecchia casa disabitata ai piedi del bosco. Spalancò le persiane arrugginite, lasciò che l’aria tornasse a far respirare le stanze e, senza fretta, riportò in vita lo splendido giardino di rose sul retro.
Passarono giorni e settimane. La donna non ripercorse mai la strada che portava al paese e, un po’ per volta, la preoccupazione degli abitanti scemò.
Forse il suo arrivo non aveva nulla a che fare con il segreto della giovinezza.
Ma fu posto il tacito divieto di avvicinarsi alla collina.
La Donna Senza Volto era e sarebbe rimasta una minaccia.
Forse in una altro mondo la Donna Senza Volto avrebbe fatto paura alle giovani generazioni. Ma in un mondo in cui non era l’ignoto a spaventare, i bambini sentirono crescere nelle loro menti qualcosa a cui non erano più abituati: la curiosità. E contravvennero, senza timore, al divieto di risalire la collina.

Trascorsero interi pomeriggi a spiare la casetta ai piedi del bosco e la sua proprietaria intenta a prendersi cura di un giardino la cui bellezza toglieva il fiato.
Fu una ragazzina a cavallo tra gli anni dell’infanzia e della pubertà ad avvicinare per prima la donna. Rimase in piedi, ferma, dietro la staccionata bianca a osservarla per ore e, a mano a mano che il tempo passava, l’espressione di diffidenza che illuminava i suoi occhi si addolcì.
Solo allora la donna si girò verso di lei. “Ora puoi entrare”, disse con un sorriso e le indicò il piccolo gazebo coperto di rose. “ Siediti, bambina mia e bevi qualcosa”.
Fu la voce a toccare il cuore della ragazzina. Una voce pacata, lenta come il reflusso delle maree. Chiunque si nascondesse sotto quel velo non poteva far del male a nessuno.
La ragazzina si sedette.
“Credo tu voglia sapere chi sono”, disse la donna con calma.
“Solo se posso”, rispose educatamente la ragazzina.
La donna sorrise di nuovo poi, con la punta delle dita, sollevò la veletta che le copriva il viso e lasciò che gli occhi della ragazzina scoprissero senza fretta la storia della sua vita.
“Hai i capelli bianchi”, mormorò la ragazzina dopo un lunghissimo silenzio. “Sono bellissimi…”
E, dopo un attimo di esitazione, avvicinò la mano tremante per l’emozione al volto della donna e le sfiorò le rughe, a una a una, come se volesse imprimerle nella propria mente.
Dunque era questo che significava invecchiare. Permettere al tempo di scrivere sul proprio corpo i ricordi di ogni singolo attimo passato su questa Terra.
Solo dopo qualche minuto la donna prese la mano della ragazzina tra le sue e la guidò lungo la sua storia. “Queste”, mormorò sfiorando le due rughe tra le sopracciglia, “sono le preoccupazioni che hanno attraversato gli anni della povertà, quando lavoravo di notte per confezionare abiti in sartoria. E questi”, disse, spostando le dita della ragazzina sul ventaglio di rughe ai lati degli occhi, “ questi sono i sorrisi di cui la vita mi ha fatto dono.” Lentamente, guidò la piccola mano sulla fronte. “Questi sono i pensieri e l’amore incondizionato di una madre e queste”, mormorò scendendo lungo le guance, “queste, bambina mia, sono le mie lacrime. Ma non si piange solo per dolore”.
E mentre il sole si spegneva dietro il bosco, la ragazzina entrò nel mondo della Donna Senza Volto, attraverso il tatto e la voce.
Tornò il giorno dopo e quello dopo ancora, affamata di quelle storie che per la prima volta sembravano dare un senso a tutto e, insieme a lei, arrivarono quei bambini fino ad allora cresciuti in una solitudine dettata dalla vanità degli adulti.
E ascoltavano, con gli occhi spalancati su un mondo che era stato loro negato. Ascoltavano e imparavano.
Quel volto segnato dal tempo era la cosa più bella che avessero mai visto.
Varcavano l’ingresso del giardino delle rose con la stessa trepidazione che accompagnava i loro genitori attraverso la porta del negozio in fondo al paese e mentre gli adulti cancellavano dal loro corpo le tracce del passato, i bambini scavavano in quello stesso passato alla ricerca di se stessi.
Un tempo esistevano carrozze e cavalli, un tempo le persone illuminavano le loro case con lanterne a olio e attraversavano gli oceani alla ricerca di fortuna. Un tempo la bellezza risiedeva nel cuore e nella mente delle persone, nel sapersi prendere cura degli altri e nell’accompagnare le nuove generazioni lungo un cammino che avrebbero poi continuato da soli.
Un tempo, la vecchiaia era l’anello che univa il passato al futuro. E in quella magica catena di generazioni ogni cosa trovava il suo posto.
Passò l’autunno e arrivò l’inverno. Il giardino di rose si assopì. Anche la donna che abitava la casa ai piedi del bosco diede spazio all’incedere sempre più lento del tempo e insegnò ai bambini che chi invecchia cambia anche il modo di respirare.
“Ogni cosa diventa più difficile”, disse una sera, accarezzando il volto preoccupato della ragazzina. “E proprio per questo più bella”.
“Ho paura”, le confessò sottovoce la ragazzina.
“Anch’io, ma ho avuto tutta la vita per prepararmi”, disse con un sorriso. Prese con dolcezza le mani della ragazzina tra le sue e le strinse. “Tu sei la custode della mia storia. Qualunque cosa accada, io continuerò a vivere in te e nei tuoi racconti e ogni volta che prenderai per mano un bambino per accompagnarlo lungo la sua strada, io sarò con te. Sarò nelle parole che pronuncerai e nel respiro che donerai a quel bambino”.
“Io voglio invecchiare”, disse la ragazzina dopo un lunghissimo silenzio.
“Voglio invecchiare anch’io”, disse un bambino alzandosi in piedi e uno alla volta, si alzarono tutti, consapevoli per la prima volta di dover spezzare quella catena che li aveva tenuti tanto a lungo incatenati al nulla.
Fu con l’arrivo della primavera che si spense per sempre il respiro della Donna Senza Volto.
La trovarono sulla sedia a dondolo sotto il pergolato di rose bianche, il viso disteso e sorridente come per raccontare loro l’ultima straordinaria storia di una vita che aveva tanto amato. A turno, con la punta delle dita, i bambini le accarezzarono il ricordo dei pensieri, delle lacrime e dei sorrisi che l’aveva accompagnata lungo il cammino verso di loro, poi la seppellirono sotto la quercia in cima alla collina e sulla croce di legno che avevano fatto con le loro mani scrissero: Donna delle rose.
Tornare indietro non fu facile.
La solitudine che un tempo era stata loro compagna pesò più di quanto potessero sopportare. Di ciò che era accaduto a ognuno di loro, nessuno degli adulti ebbe sentore. Non si accorsero di un vuoto che cresceva dentro ai loro figli, come non si accorsero del modo in cui i loro occhi parlavano, colmi di una supplica a cui non erano più in grado di tendere la mano.
Accadde pochi mesi dopo, in una strana e buia giornata di fine estate.
Nubi cariche di folgori e grandine avanzarono lentamente lungo la strada che costeggiava la ferrovia. Il primo lampo si abbatté al suolo con un potente ruggito, il secondo colpì i binari ormai in disuso.
Il terzo fulmine esplose sul negozio in fondo al paese.
Quel luogo senza tempo, che aveva cancellato il passato di un’intera generazione, si ridusse lentamente in cenere sotto lo sguardo immobile dei giovani e dei bambini, restituendo loro, in quella buia giornata di fine estate, le chiavi del tempo e delle sue straordinarie storie. 


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 Illustrazione di Anna Bertenasco

venerdì 22 maggio 2015

Il mondo di Mathilda

         
Molti anni fa, in una fredda notte d’inverno, ai lati opposti di un antichissimo regno, nacquero due bambini. Mathilda, figlia di un povero fornaio e Thomas, delfino del re.
  Pochi giorni dopo la sua nascita, Thomas fu promesso sposo alla principessa del reame oltre il lago ghiacciato e perché nulla potesse cambiare il loro destino, fu deciso che i due principi sarebbero vissuti isolati dal mondo fino al giorno delle loro nozze.
  Così Thomas crebbe solo, nel suo mondo fatato, accudito da balie, maggiordomi e istitutori privati senza mai sapere che oltre le mura del castello esisteva un altro mondo.
I suoi unici compagni di gioco furono rondini e usignoli e perché non volassero via con l’arrivo dell’inverno, fece costruire una grande, bellissima serra al centro del giardino del castello, con fontane, palme e profumati fiori tropicali.
Questo era il mondo di Thomas.

  Dall’altra parte del regno, sopra la vecchia bottega del fornaio, cresceva la piccola Mathilda. Cresceva libera di giocare nei prati fioriti, di esplorare con gli altri bambini gli angoli segreti del bosco e di pattinare sul lago ghiacciato nelle fredde giornate d’inverno.
  Ma quando arrivò l’autunno del suo sesto compleanno, Mathilda scoprì che la sua famiglia era troppo povera per mandarla a scuola. E pianse. Allora sua nonna la strinse tra le braccia e disse: “Ti insegnerò io a leggere”.
  “Davvero?” chiese Mathilda, asciugandosi le lacrime.
  “I libri sono come porte”, disse la nonna con dolcezza. “Ogni volta che ne apri uno ti si spalancano mondi lontani e meravigliosi. Se impari a leggere, quei mondi diventeranno parte di te”.
  “Ma noi non abbiamo libri”, disse Mathilda.
  La nonna le accarezzò una guancia. “Un passo per volta, bambina mia. Quando sarà il momento, troveremo i libri”.
  Così Mathilda imparò a leggere. E sua nonna le trovò i libri. Ogni sera, prima di andare a dormire, Mathilda accendeva la candela sul comodino, si infilava sotto le coperte e leggeva fino a notte fonda, scoprendo tra quelle vecchie pagine ingiallite dagli anni mondi incredibili. Lesse storie di altri tempi e di altri paesi, scoprì le meraviglie della natura e i segreti dell’animo umano e, con la fantasia, sera dopo sera, volò oltre le barriere del tempo e dello spazio.
  Poi sua nonna si ammalò.
  Per giorni e giorni Mathilda rimase seduta accanto a lei e quando capì che stava per morire, le baciò i morbidi capelli bianchi e le disse addio nell’unico modo in cui sapeva fare: raccontandole una storia che non era ancora stata scritta.
  Fu così che Mathilda, troppo povera per comprare libri, cominciò  a  inventare  storie.   Raccontò  di  mondi  che  non conosceva e di cose che non aveva mai visto e ben presto, in tutto il regno,  si sparse la voce che sul lago ghiacciato viveva una bambina che raccontava le storie più belle che si fossero mai sentite. E queste storie entrarono di casa in casa, raccontate dalla voce delle balie e delle cuoche che ogni mattina si fermavano alla bottega del fornaio per comprare il pane.
  Fu così che quelle stesse storie varcarono le mura del castello per essere raccontate sottovoce dalla servitù in cucina.
  Ma nessuno immaginò mai che quei bisbigli giungessero, attraverso il camino, anche alla camera del giovane principe. Lui le ascoltò, giorno dopo giorno, per mesi, imparando a conoscere il mondo attraverso gli occhi e le parole di Mathilda, finché una mattina molto presto, mentre tutti dormivano, scavalcò i cancelli dietro  ai  quali  aveva vissuto in  solitudine  per  troppo tempo e andò a cercare la ragazza che, con le sue storie, gli aveva regalato la libertà.
  La trovò nella piccola bottega del fornaio e, nel momento in cui la vide, si innamorò perdutamente di lei.
  Da quel giorno, ogni mattina, molto prima che il sole sorgesse, Thomas entrava dal retro della bottega e aiutava Mathilda a fare il pane. Parlavano, ridevano, ma soprattutto, mentre i lunghi filoni di pane cuocevano in forno, leggevano insieme  i libri  che Thomas portava con  sé.  Libri  d’arte, di  musica, di medicina e di storia.
 Mathilda imparò cose di cui non aveva mai immaginato l’esistenza e Thomas imparò ciò che fino ad allora nessun istitutore era stato capace di insegnargli: l’amore per la conoscenza.
  Poi, una mattina, qualcuno si accorse delle rondini appollaiate sul tetto del fornaio. Cominciò a spiare la bottega e quando scoprì che il ragazzo che sgattaiolava via  alle prime luci dell’alba era il principe Thomas, corse dalla madre della principessa e le raccontò ogni cosa. Che Mathilda era bella come nessun’altra ragazza in tutto il reame e che il principe si era perdutamente innamorato di lei.
  La regina gridò. E lo fece con tutto il fiato che aveva in corpo. Mai e poi mai avrebbe permesso ad una povera fornaia di mandare a monte le nozze della figlia! Corse in solaio, cercò  il  grande  libro degli  incantesimi  che  aveva  ricevuto in dono da sua madre e lanciò la più terribile maledizione che fosse mai stata fatta.
  “Diventerai di ghiaccio”, tuonò la regina.  “E affinché il tuo corpo non si sciolga ai raggi del sole, sarà imprigionato in una statua di pietra. Ma i tuoi occhi, quelli rimarranno vivi perché tu possa vedere il principe innamorarsi di un’altra donna, sposarla e invecchiare accanto a lei. Questa sarà la tua maledizione! Chiunque cercherà  di liberarti  dalla tua  prigione ti ucciderà perché per farlo dovrà scalfire la pietra senza mai intaccare il ghiaccio. E,” rise la regina, “non esiste notte abbastanza lunga perché questo possa mai accadere. Morirai prima che il tuo corpo di ghiaccio sia stato completamente liberato”.
  La maledizione della regina si avverò.
  Mathilda scomparve.
  Alcuni dissero che era misteriosamente annegata nel lago, altri che era fuggita alla ricerca di quei mondi che avevano dato vita alle sue bellissime storie, ma nessuno, mai, associò la sua scomparsa all’improvvisa apparizione della bellissima statua ai piedi del lago.
  Poi la bottega del fornaio chiuse.
  E una piccola croce venne messa accanto alla quercia, là dove, anni prima, era stata sepolta la nonna di Mathilda.
  Ma il giovane principe non smise di cercarla. La cercò per mesi, ovunque, dando retta alla voce disperata del suo cuore che gli diceva di non arrendersi. E quando, alla fine, il dolore divenne troppo grande, Thomas partì.
  Viaggiò da un paese all’altro, scoprendo con i suoi occhi quei posti di cui aveva sentito solo parlare nei racconti di Mathilda, studiò nelle più importanti scuole del mondo e solo cinque anni più tardi, quando la vita aveva fatto di lui un uomo, tornò al castello.
  “Sposerò la principessa”, disse a suo padre e nello stesso momento  in cui  pronunciò  quelle  parole capì  che neppure i lunghi anni di separazione avevano cancellato il suo amore per la ragazza che, con le sue storie, gli aveva regalato la libertà.
  Camminò verso il lago e si fermò solo quando fu arrivato di fronte alla statua. Allora, per una ragione che non poteva comprendere, si sentì finalmente in pace.
   Il giorno dopo, l’intero reame cominciò a prepararsi alle nozze. Centinaia di inviti furono consegnati di casa in casa, le sarte ricevettero ordine di tagliare e cucire i più bei vestiti che si fossero mai visti e il giardino di rose intorno al castello fiorì in tutto il suo splendore.
  Thomas tornò alla statua sul lago ogni giorno, e ogni giorno vi rimase un po’ più a lungo. Le raccontò dei suoi viaggi, delle cose che aveva visto e imparato e della ragazza che un tempo aveva amato. Poi le parole finivano e la luna faceva la sua comparsa in cielo. Allora il principe alzava gli occhi su quel volto scolpito nella pietra e lo fissava in silenzio, con la sensazione che diventasse ogni giorno più triste.
  La sera prima delle nozze, senza sapere perché, allungò una mano per sfiorarle la guancia con una carezza. E fu allora che vide una lacrima scivolarle lungo le ciglia di pietra.
 All’improvviso ogni cosa  divenne chiara. Ricordò che Mathilda era scomparsa il giorno in cui la statua era stata vista  per  la  prima  volta  sul lago  e che  il  cuore  gli  aveva  sempre detto che lei era viva.
  Prese uno scalpello e cominciò a scalfire la pietra dura come il marmo. Lavorò per ore, senza sosta, al buio della notte, cercando di non graffiare mai il ghiaccio e poco prima dell’alba sentì una voce sussurrare: “Il sole mi ucciderà”.
  Il principe guardò il bellissimo volto della ragazza di ghiaccio e pianse. Se solo avesse avuto ancora un po’ di tempo... solo un po’.
  Poi, accadde qualcosa di straordinario. Il sole cominciò a sorgere, ma in quello stesso istante migliaia di rondini e usignoli, da ogni parte del reame, si alzarono in volo e oscurarono il cielo.
  Rimasero fermi sotto il sole, le ali spiegate per impedire ai suoi raggi di sfiorare il ghiaccio e solo quando il principe polverizzò l’ultimo granello di pietra e baciò l’unica donna che avesse mai amato, il cielo tornò a schiarirsi.
  Fu la notte più lunga che il mondo ricordi, la notte in cui la sola forza dell’amore ruppe il più perfido incantesimo mai fatto.

 Tutti i diritti riservati Claudia Mancino
 Foto dal Web

giovedì 21 maggio 2015

Bisbigli




Ho perso il conto degli anni. A volte ho la sensazione che Dio mi abbia fatto vivere molto più a lungo di quanto il destino mi avesse concesso e non avere un volto su cui misurare il passare del tempo fa di me un uomo maledetto.
Ciò che accadde quel lontano inverno avrebbe dovuto essere un monito per tutti noi.
Eppure non fu così. La nostra vita continuò esattamente così come era sempre stata. Non cambiò nulla. Né la gente, né la sua cattiveria.
Sotto le spoglie di un piccolo paese affacciato sull’oceano si celava un mostro e, noi tutti, avevamo permesso alle sue radici di affondare nella nostra terra e moltiplicarsi sotto le nostre case.
Furono quelle radici a trasformarci, anche se nessuno di noi conservava memoria dell’esatto momento in cui era accaduto.
Iniziò lentamente, molti anni prima che nascessimo. Iniziò dalle strade e dalle piazze, poi fu la volta delle case e dei negozi e infine… infine toccò alle persone.
Ogni singola cosa in quello strano paese era diventata stretta, come se qualcosa avesse, un po’ per volta, consumato e mangiato pietre e mattoni e… carne. Perché anche noi, come tutto ciò che ci circondava, eravamo diventati stretti. Stretto e appuntito era il nostro naso, strette erano le nostre labbra e stretta la fessura dei nostri occhi.
Non ci era concesso vedere più in là di qualche spanna.


Fu questo il motivo per cui, quando in quella lontana e nebbiosa mattina d’inverno di molti anni fa, una giovane coppia si stabilì nella casa accanto al faro, nessuno se ne accorse.
Fu un ragazzino, a cui non si era ancora ristretto del tutto il naso, a percepire la loro presenza annusando l’aria. Era un odore caldo e delizioso che accarezzava le narici e vibrava sulla pelle come un esercito di formiche.
Prima che la sera scendesse, l’intero paese bisbigliava freneticamente.
“Inconcepibile”, sussurravano le donne nei vicoli.
“Avveleneranno l’aria”, sosteneva qualcuno.
“Un presagio funesto”, sibilava qualcun altro.
Quella notte furono in pochi a dormire. Chi fissava dal buio della propria casa le finestre illuminate accanto al faro, chi annusava l’aria nella speranza di cogliervi quella fragranza di cui tutti parlavano, ma che nessuno avrebbe mai ammesso di non sentire.
Eppure il mattino dopo erano tutti concordi nell’affermare che, nottetempo, quell’odore si era insinuato tra le strade del paese e che, come un serpente, era scivolato sotto le loro porte.
“Nauseabondo”, confabularono alcuni.
“Annebbia il cervello”, affermarono altri.
“Brucia la gola”, asserì un uomo quasi sottovoce.
Nessuno, però, ebbe il coraggio di avventurarsi fino alla casa accanto al faro.
Rimasero tutti in attesa che i suoi misteriosi abitanti venissero in paese.
Ma di loro, neppure l’ombra.
Passarono giorni e settimane. Piovve e tornò il sole, ma l’unico segno di vita rimase il fumo denso e grigio che fuoriusciva dal camino della casa accanto al faro. E quel fumo divenne la nostra ossessione.
“Dovranno pure mangiare”.
“E se si procurassero il cibo in modo non convenzionale?”
“Alla vedova che abita dietro la piazza è sparito un gatto”.
Nei vicoli calò un lungo silenzio.
“Ecco perché quell’odore disgustoso”, bisbigliò una donna e un attimo dopo il suo volto si assottigliò come la lama di un’accetta. “Mangiano i nostri animali…”
E vicolo dopo vicolo, i bisbigli si moltiplicarono e crebbero, appiccicandosi sulle panchine, sui muri e sul selciato per poi incollarsi alla suola delle scarpe dei passanti ed entrare nelle botteghe. E qui, mezze parole calpestate e portate da decine di scarpe si mescolarono ad altre mezze parole, prendendo forme distorte e terribili.
“Tenete i vostri bambini chiusi in casa,” ammonivano i più anziani.
“Chiudete le porte a chiave”.
“Non uscite mai dopo il tramonto”.
“Non uscite mai soli…”

Sottoterra, le radici del mostro si erano risvegliate.

All’alba del giorno dopo fu interpellato il sindaco in persona.
“Nessuno dorme più”, lo informarono.
“I bambini hanno perso l’appetito”.
“E hanno paura”.
“Quella gente deve andarsene”.
“Lei, signor sindaco, deve fare qualcosa”.
E quella notte, mentre tutti prendevano finalmente sonno, certi che il sindaco avrebbe provveduto a risolvere il problema, il pover’uomo, in preda all’agitazione camminava curvo avanti e indietro per le anguste strade del paese.
Ma come tutti gli uomini di poco coraggio scelse di seguire la strada dell’ombra. Convocò il ragazzino che sapeva annusare l’aria e gli promise fama e gloria in cambio di informazioni sulla coppia del faro.
Fu così che il ragazzino che sapeva annusare l’aria cominciò ad avventurarsi oltre il sentiero che limitava il paese e, sera dopo sera, al calar del sole, tornava dal sindaco a raccontargli ciò che aveva visto. L’uomo ascoltava avidamente ogni dettaglio, gli occhi fissi come punteruoli in quelli del ragazzino poi, con la mano tremante per l’emozione trascriveva parola per parola sulle pagine ingiallite del suo antico libro nero.
Ma con il passare dei giorni accadde qualcosa che nessuno aveva messo in conto: il ragazzino cominciò ad amare le ore trascorse nascosto tra le fronde dell’acero accanto al faro. Quella coppia che tanto spaventava gli abitanti del paese cominciò ad affascinarlo. Cucinava e mangiava cibi che il ragazzino non conosceva, ma il cui profumo inebriava l’aria, trascorreva ore a chiacchierare e ridere in giardino e lavorava senza sosta nell’orto dietro casa. Insomma, sembrava bastare a se stessa e se il ragazzino avesse dovuto scegliere una parola per descriverla avrebbe scelto “felicità”.
Fu quella loro semplice felicità a trasformare lentamente i tratti del bambino. Cominciò dalle guance, che un po’ per volta si ammorbidirono, poi gli occhi che pian piano si ingrandirono e infine anche le labbra che si riempirono.
Per quanto lento, questo cambiamento non passò inosservato. La gente del paese cominciò a guardare il ragazzino in modo diverso e ben presto i bisbigli crebbero come il vento che alimenta il fuoco.
“Non sembra più uno di noi”.
“I suoi occhi sono più grandi”.
“E sembra molto ben nutrito”.
“Ce lo stanno portando via… “
“… lo hanno stregato”.
Anche il sindaco si accorse che qualcosa era cambiato nel volto del ragazzino e, al calar della notte, quando fu sicuro che nessuno li avrebbe visti né sentiti, chiuse la porta a chiave, alzò la mano e schiaffeggiò il ragazzo.
Un solo colpo.
Poi, come se nulla fosse, si sedette di fronte a lui e piegò le labbra affilate in un sorriso.
“Mangi con loro?”
“No, signore!”
“Parli con loro?”
“No, signore!”
“Sei entrato nella loro casa?”
“Mai, signore”.
“Cosa accade veramente lì dentro?”
“Nulla, signore”.
“Nulla?”
“Nulla”, balbettò il ragazzo.
“Attento, ragazzo, a non mentirmi mai!”
“Non lo farò, signore”.
“Allora, raccontami quello che hai visto oggi”.
Il ragazzino che annusava l’aria, per la prima volta nella sua vita ebbe davvero paura.
Quella notte, davanti allo specchio, si toccò e si ritoccò i lineamenti del viso, chiedendosi perché stava succedendo a lui.
Non lo avrebbero più voluto. Lo avrebbero mandato via e non gli avrebbero mai permesso di tornare. Perché le persone sanno essere cattive, anche senza alzare il pugno. Perché ogni loro bisbiglio diventa come una pietra che ferisce senza lasciare il segno e perché ognuno di questi bisbigli serviva a nutrirne centinaia di altri.
Quella fu la notte più lunga della sua vita. E fu anche la prima volta in cui il ragazzino provò per la giovane coppia del faro qualcosa di molto simile all’odio. Gli avevano permesso di sbirciare nel loro mondo pur sapendo che lui non ne avrebbe mai fatto parte e lentamente lo avevano trasformato.
Se solo non fossero stati tanto stupidi da sottovalutare la forza divoratrice dei bisbigli…
Forse la sua gente aveva ragione, forse c’era qualcosa di maledettamente sbagliato in quella coppia, qualcosa che lui non riusciva a vedere.
Eppure, in fondo al cuore, il ragazzino, sapeva che c’era una sola cosa giusta da fare.
Ma sapeva anche che non sarebbe mai riuscito a farla.
Doveva spegnere il fuoco dei bisbigli prima che fosse troppo tardi e un giorno forse non troppo lontano, avrebbe dimenticato la coppia del faro come se non fosse mai esistita.
Il mattino dopo, nascosto in un vecchio mantello, si recò dal sindaco per raccontargli ciò che tutti si erano sempre aspettati che raccontasse. E, con il volto coperto da un logoro cappuccio, parlò e parlò, lasciando che le lacrime scavassero come lame quel viso che lo aveva reso tanto diverso.

Non seppe mai che fine fece la giovane coppia del faro.
Fu circondato di attenzioni e di fama per il tempo sufficiente perché i ricordi di quell’inverno sbiadissero nella sua mente, ma da quel giorno, per il resto della sua vita, il ragazzo che sapeva annusare l’aria, visse in silenzio, il volto nascosto dal logoro cappuccio del tradimento per il timore di vedere il suo viso deformato dalle radici del male.

Scelsi la strada della paura.
Ero solo un ragazzo, ma non seppi oppormi alla cattiveria.
Ciò che ha deformato il mio volto ha risparmiato i miei occhi, perché io potessi vedere il frutto di ciò a cui avevo dato inizio.
Non durerà in eterno. Le radici del mostro a cui noi tutti abbiamo dato vita hanno quasi divorato l’intero paese.
Siamo destinati a scomparire, uno dopo l’altro, cannibali di noi stessi.

La sola cosa che rimarrà intatta, sarà la casa accanto al faro.

   





Tutti i diritti riservati © Claudia Mancino

Illustrazioni di Anna Bertenasco