martedì 19 maggio 2015

Per violino solo






C’era una volta, tanto tempo fa, in un paese molto lontano, una piccola città che si preparava a festeggiare il Natale. Le strade erano illuminate da grandi lampioni di ferro battuto e sui rami di ogni albero erano stati legati fiocchi rossi e stelle d’oro.
Quando scendevano le prime ombre della notte un vecchio dalla barba bianca come la neve passava ad accendere con i suoi lunghi fiammiferi i lampioni e, una strada dopo l’altra, la piccola città si illuminava di una luce calda e tremolante.
Sembrava tutto perfetto. I negozi addobbati, le persone eleganti che si muovevano in carrozza e le case ben curate che si affacciavano sui lunghi viali alberati.
Ma in quella lontana cittadina, nessuno, da molto tempo, sognava più.
Una notte cominciò a nevicare. Una neve fitta, soffice come un cuscino, che piano piano spense tutti i rumori e chiuse la piccola città in un silenzio irreale.
Fu quella notte che una bambina, dormendo nel suo letto, sentì il lontano suono di un violino. Si alzò e, in punta di piedi, andò ad aprire la finestra. Un gelido soffio entrò in quella stanza riscaldata da una semplice stufa, ma la melodia del violino era così bella che la bambina non si mosse. Appoggiò le braccia al davanzale, chiuse gli occhi e, per la prima volta, nella sua giovane vita cominciò a sognare.
La seconda notte nevicò ancora. E di nuovo, verso mezzanotte, il lontano suono del violino la svegliò. La bambina aprì la finestra, si avvolse in un vecchio scialle e poco dopo, si addormentò sognando una pioggia di stelle cadenti inabissarsi tra le alte cime bianche delle montagne.
La terza notte la neve scese ancora più fitta. Dai tetti delle case pendevano lunghissimi ghiaccioli e il vento era così freddo che bruciava le guance. Ma la bambina non lo sentì.
Quella notte, il suono triste e solitario del violino la fece piangere. Ferma, accanto alla finestra, la bambina ascoltò qualcosa a cui non sapeva dare un nome, ma che era diventato per sempre parte del suo mondo e quando finalmente si addormentò vide, con gli occhi del sonno, una gigantesca palla di fuoco che si spegneva  nelle scure acque dell’oceano.
 Il giorno dopo, mentre faceva colazione nella grande sala da pranzo al centro della casa, chiese a sua mamma: ”Lo senti anche tu?”
 La mamma la guardò senza capire. ”Cosa, tesoro?”
 “E’ bellissimo”, spiegò la bambina, non sapendo come definire la musica. “Sono suoni, caldi come il vento d’estate e dolci come il rumore dell’acqua. Li sento di notte, quando nevica, e se chiudo gli occhi vedo cose che non avevo mai visto prima, come se quei suoni mi portassero in un altro mondo.”
 La mamma della bambina impallidì. “Si chiama musica, bambina mia, ma è una cosa molto pericolosa e nessuno, in questa città la suona da anni.”
 “Ma io l’ho sentita,” protestò la bambina. “E sembra la voce di un angelo. Oh mamma, come può una cosa così bella essere pericolosa?”
 “Perché fa sognare cose che non si avvereranno mai. E questo, figlia mia, rende gli uomini deboli. Ora, promettimi di non aprire mai più la tua finestra di notte”.
“Lo prometto”, disse la bambina.
Ma quando quella notte il lontano suono del violino tornò a danzare con il vento, la bambina ruppe la sua promessa. Incurante del freddo, si affacciò alla finestra e con gli occhi colmi di speranza cercò ovunque con lo sguardo, tra la neve e la nebbia, ciò che fino ad allora le era sempre sfuggito. E fu allora che, in fondo alla strada, dietro il piccolo lucernaio di un vecchio palazzo disabitato scorse la luce tremolante di una candela.
Aveva trovato il suo angelo.
Poi vide un gruppo di uomini con le lanterne in mano e seppe, con assoluta certezza, che anche loro cercavano il violino.
La bambina si lasciò cadere in ginocchio, incrociò le mani al petto e pregò Dio perché non lo trovassero. Pregò sottovoce, così come le era stato insegnato, ma un po’ per volta, senza rendersene conto, la sua voce cambiò, cominciò a crescere e la preghiera che uscì dalle sue labbra fu la più bella e melodiosa mai sentita.
Solo all’alba, infreddoliti e delusi, gli uomini tornarono alle loro case, e solo allora la bambina smise di cantare.
Infilò il suo cappottino rosso, gli stivali  e le muffole nere, e uscì di casa cercando quel vecchio palazzo disabitato in fondo al viale. Camminò e camminò e, quando finalmente lo trovò, aprì l’enorme portone di legno e si sedette sulle scale, intonando sottovoce l’Ave Maria.
Il violino rimase un po’ in silenzio, poi cominciò a suonare.
Allora la bambina si alzò e, senza smettere di cantare, cominciò a salire le scale. Salì fino all’ultimo piano e, là, nascosta dietro alcuni gradini, trovò una porta socchiusa. Con il cuore che le batteva forte nel petto la bambina ammutolì ed entrò. La stanza era così fredda e povera che non riusciva a credere che qualcuno potesse davvero viverci. Il vetro del lucernaio era rotto, il letto era coperto di strani pezzi di carta pieni di righe e macchie nere, e in un angolo c’era un tavolino senza una gamba su cui poggiava una  lampada ad olio.
Di fronte a lei, in piedi al centro della stanza, c’era un ragazzo  che teneva tra le braccia l’oggetto più bello che avesse mai visto. Era fatto di legno scuro e sembrava un’onda su cui correvano quattro corde che il ragazzo accarezzava con una lunga, strana bacchetta.
 “Ciao”, disse la bambina quasi sottovoce.
 Il ragazzo sorrise.
 “Come ti chiami?” chiese la bambina.
 Il ragazzo sollevò l’archetto e le indicò due macchie tonde sul foglio che aveva davanti. La bambina guardò le lettere scritte sopra le due macchie.
 “Re Mi”.
 Il ragazzo scosse la testa e con l’archetto disegnò prima un trattino tra le due parole, poi un accento sul Mi.
 “Remì?”
 Il ragazzo sorrise e annuì.
 “Non puoi parlare?”
  Il ragazzo scosse la testa.
 “Oh,” fece la bambina, addolorata.
 Il ragazzo le appoggiò l’archetto sul cuore e piegò la testa da una parte. Le stava chiedendo il suo nome.
 “Marta”, rispose la bambina con un sorriso.
 Il ragazzo allargò le braccia e si inchinò.
 “Anche per me è un piacere conoscerti”, disse la bambina, ricambiando l’inchino. 

 Fu l’inizio di qualcosa che nessuno avrebbe più potuto cambiare. Ogni pomeriggio, dopo la scuola, Marta saliva nella buia soffitta in fondo alla strada e ascoltava il giovane violinista a cui Dio aveva negato la voce per donargli un talento infinitamente più grande. Quello della musica.
In quella vecchia soffitta la bambina imparò a piangere per la bellezza misteriosa dei suoni, imparò a danzare dalla felicità, a cantare con la voce di un angelo, ma soprattutto imparò a sognare.
Il violino di Remì riportò in vita, giorno dopo giorno, quel mondo di suoni ed emozioni che la piccola città aveva cancellato molto tempo prima. Un mondo del quale la bambina non poteva più fare a meno.
  Quando l’inverno si fece più freddo, la piccola Marta regalò al giovane violinista i guanti di suo padre per proteggergli le mani. Il ragazzo prese un paio di forbici e tagliò via la punta delle dita, poi se li infilò, sorrise e tornò a suonare. Lo sentiva di notte, quando il freddo si faceva più intenso e le strade si ghiacciavano. Remì suonava, chiuso in quella piccola soffitta che nessun adulto aveva mai trovato, regalando alla bambina quei sogni  e quelle emozioni che gli adulti le avevano negato.
Poi, un pomeriggio di fine inverno, la bambina trovò la soffitta vuota. Tornò il giorno dopo e quello dopo ancora.
Ma  il violino, ovunque fosse, non suonava più.
Giorno dopo giorno, per settimane, la bambina tornò in quella vecchia casa a cercare Remì. Poi le ragnatele cominciarono a formarsi negli angoli e uno spesso strato di polvere coprì gli spartiti ancora sul leggio.
Fu allora che la bambina capì che Remì non sarebbe mai più tornato. Il suo mondo segreto non esisteva più.
Smise di pregare. Smise di cantare e ben presto smise anche di sognare. Si ammalò così gravemente che i suoi genitori credettero che non sarebbe sopravvissuta. Invece la bambina visse, ma smise di parlare. Arrivarono medici da tutte le parti del paese, ma nessuno seppe mai spiegare cosa fosse successo.
Un giorno suo padre la trovò accanto alla finestra, la testa leggermente china da una parte e le braccia piegate in una posizione che non aveva più visto da anni. La sua adorata bambina stava suonando un violino immaginario.
“Sta impazzendo”, disse alla moglie quella sera.
“Non essere sciocco”, rispose la moglie. “Non si impazzisce per così poco”.
Il marito la guardò con gli occhi stanchi. “Forse abbiamo sbagliato. Tutti noi. Quel violino ha risvegliato in Marta una passione che noi ora stiamo uccidendo. Se ha imparato ad amare la musica e a sognare non potrà più farne a meno.”
 “L’ha resa debole”, rispose la moglie.
 “Forse l’ha solo resa diversa”, disse il marito.
 La bambina crebbe e, anno dopo anno, divenne sempre più bella. Ma non uscì più di casa. Trascorreva le giornate davanti alla finestra, nel silenzio più totale, suonando per ore il suo violino immaginario. Passarono le primavere e passarono le estati, passarono gli autunni e passarono gli inverni senza che Marta proferisse parola. Cadde la pioggia, poi la neve e ogni notte la finestra della sua camera rimase aperta nella speranza che da qualche parte, un violino rispondesse alla sua disperata preghiera.
Poi arrivò l’inverno del suo diciottesimo compleanno.
Furono legati grandi fiocchi rossi e stelle dorate agli alberi, furono accese le candele e alle prime ombre della notte, il vecchio dalla barba bianca come la neve illuminò, uno dopo l’altro, i vecchi lampioni di ferro battuto con i suoi lunghissimi fiammiferi.
La ragazza dai capelli biondi come il grano aspettò che si facesse notte, poi spalancò la sua finestra e, per la prima volta dopo tanti anni, si inginocchiò davanti alla stufa, incrociò le mani al  petto e pregò.
Dalle sue labbra uscì il più bel canto che il mondo avesse mai sentito.
Pian piano, tutte le finestre della piccola cittadina s’illuminarono. Bambini grandi e piccoli  scivolarono fuori dal letto e corsero a sentire quella voce soave. Uomini e donne, giovani e anziani spalancarono le porte di casa, incapaci di resistere alla dolcezza di quella musica e nella fitta foresta oltre i confini della città, dietro le sbarre della prigione, un uomo cominciò a piangere.
Ricordava quella voce.
Alzò lo sguardo al cielo, chiedendo a Dio cosa doveva fare, poi, asciugandosi le lacrime, prese quel violino che lo aveva condannato a dieci lunghi anni di solitudine e cominciò a suonare.
Fu la notte in cui le lacrime degli adulti si trasformarono in cristalli, ferendo i loro occhi così ciechi all’amore, e fu la notte in cui i bambini impararono a sognare, cullati da quella musica che non avrebbero mai dimenticato.
Pianse anche Marta. Pianse per gli anni che la ragione aveva rubato ai sentimenti. E pianse per una città che aveva vissuto senza sogni.
Coloro che vissero l’incantesimo di quella notte ricordano ancora oggi, un’esile figura dai lunghi capelli biondi allontanarsi, scalza, lungo la strada verso il bosco, seguendo le note di un violino che sembrava suonare solo per lei. Ricordano la sua voce, sempre più lontana, poi più nulla.
Il mattino dopo, la piccola città si svegliò nel silenzio più totale.
La stanza di Marta era vuota. Poco più lontano, nella prigione vicino al lago, anche la piccola cella dell’uomo che aveva vissuto in silenzio dieci anni fu trovata vuota.
Di loro non si seppe più nulla. Ma alcuni, ancora oggi, raccontano che nelle notti in cui nasce un bambino, il lontano canto di un violino riecheggia nella vallata, regalando al piccino il suo primo sogno perché nessun adulto, con gli anni, possa mai rubaglielo.
                                                 

                            A mio figlio Mattia e  all’uomo che un giorno diventerà
    

                      Tutti i diritti riservati Claudia Mancino
                      Illustrazione di Anna Bertenasco



Il bambino che fermò il tempo





C’era una volta un bambino che non possedeva nulla se non i poveri vestiti che indossava e una strana piccola moneta che luccicava anche quando tutt’intorno era buio.
Non aveva una casa e non aveva una famiglia, ma il nostro bambino non si era mai sentito solo. Viveva in una grande città piena di luci, voci e suoni e guardava la vita scorrere intorno a lui con gli occhi di chi aspetta qualcosa di importante.
Era felice, il nostro bambino. Felice di rivedere ogni mattina il giovane cocchiere uscire sbadigliando da casa o il burbero giardiniere affrettarsi a togliere le foglie dai marciapiedi. E sorrideva quando sentiva il rumore familiare dell’orologiaio che apriva bottega e il profumo dolce e caldo che usciva dal camino della pasticceria all’angolo.
Allora scendeva a due a due i cento settanta scalini della torre dell’orologio dove aveva trovato rifugio e, correndo, A andava incontro al nuovo giorno.
Erano i suoi occhi sempre felici a renderlo un bambino molto speciale e tutti, proprio tutti, a modo loro, si prendevano cura di lui. Se la pasticciera provava la ricetta di un nuovo dolce, spettava a lui l’onore di assaggiarla per primo, il burbero giardiniere aveva sempre bisogno delle sue mani delicate per sistemare i fiori nelle aiuole e il vecchio orologiaio, nonostante le sue lenti magiche, si faceva aiutare dai suoi giovani occhi per assicurarsi che tutti i meccanismi fossero montati al posto giusto. Dì tanto in tanto, a fine turno, il cocchiere gli permetteva di strigliare i cavalli e in cambio gli donava una sciarpa o un paio di guanti dimenticati da qualcuno sui sedili della sua carrozza o lo portava a fare un ultimo giro lungo i viali della città.
E ascoltava, il nostro bambino. Ascoltava le loro piccole e grandi storie e osservava tutto con silenziosi occhi affamati di sapere.
Gli anni dell’infanzia scivolarono via così, stringendo e annodando i fili invisibili dell’affetto intorno a quelle persone che avevano reso ogni suo giorno un po’ speciale, finché una mattina i battenti della bottega dell’orologiaio rimasero chiusi.
“Le sue mani soffrono”, gli confidò il cocchiere, scuotendo la testa. “A volte succede quando si diventa molto vecchi”.
“Tornerà?”
“Ho paura di no”.
Il bambino tirò fuori dalla tasca la strana piccola moneta che aveva ricevuto in dono dall’orologiaio anni prima e la fissò.
La sua luce si stava spegnendo.
Con il cuore pesante, salì nel suo rifugio in cima alla torre, si affacciò al lucernario e pensò e pensò per una notte intera finché non seppe cosa fare. Raccolse in un fagotto tutto ciò che gli serviva e si arrampicò tra i giganteschi meccanismi dell’orologio.
Lavorò per giorni, senza mai smettere. Lavorò con la monetina stretta al cuore, tenendola in vita con il proprio calore e quando ebbe finito di invertire tutti gli ingranaggi dell’orologio della torre, una fredda folata di vento fece bisbigliare tutti gli alberi della città e ogni cosa tornò com’era stata qualche giorno prima. Allora il bambino prese la moneta che brillava di nuovo, la sistemò tra le due grandi lancette e… fermò il tempo.
Poi, corse per strada e si guardò intorno con il cuore che batteva forte. Il cocchiere uscì di casa sbadigliando, la pasticciera sfornò la prima torta della giornata, il giardiniere prese dal carretto la scopa e il vecchio orologiaio aprì i battenti della sua bottega.
E, come aveva sempre fatto, il bambino aiutò a ripulire i marciapiedi dalle foglie, assaggiò una fetta della torta ancora calda, legò i cavalli alla carrozza e mentre cominciavano a scendere i primi fiocchi di neve, si fermò davanti alla bottega dell’orologiaio e sbirciò attraverso la vetrina, gli occhi colmi di una felicità che non aveva mai provato.
Da quel giorno nevicò per moltissimo tempo.
Fece freddo così a lungo che, un po’ per volta, le persone smisero di sorridere.
Le strade della città diventarono sempre più silenziose, gli alberi ghiacciarono e scomparvero anche le voci dei bambini che giocavano nel cortile della scuola.
In quella città senza tempo, nessuno sentì più il primo dolce vagito di una creatura venire al mondo.
Fu il giardiniere, una mattina, ad accorgersi che qualcosa non andava. Si chinò sulle violette che aveva piantato tanto tempo prima e le sfiorò con la punta delle dita. Il bocciolo si spezzò e cadde a terra.
“Questo è l’inverno più lungo che io ricordi”, disse al nostro bambino. “Gli alberi soffrono, il fiume si è gelato e i mulini non funzionano più. Come macineremo il nostro grano? E cosa daremo da mangiare ai nostri figli?”
Allora il bambino si guardò intorno, lentamente, e per la prima volta vide ciò che fino ad allora non era stato capace di vedere.
E sentì il silenzio.
Corse alla bottega dell’orologiaio e lo abbracciò.
“Credo sia venuto il momento di rimettere le cose a posto”, gli disse il vecchio.
Il bambino spalancò gli occhi.
“Come faccio a saperlo?” L’orologiaio posò le sue pesanti lenti magiche sul banco da lavoro e sorrise. “Per molto tempo mi sono chiesto cosa fosse quella strana piccola luce che brilla ogni notte tra le lancette dell’orologio della torre. Ora credo di averlo capito”. E gli sfiorò dolcemente i capelli con la mano. “Mi hai fatto il dono più grande che qualcuno possa fare a un essere umano. Mi hai donato ancora un po’ di tempo. Ed è stato incredibile, ma ora, piccolo mio… ora devi lasciare che la vita faccia il suo corso”.
“E tu cosa farai?” chiese il bambino con gli occhi lucidi.
“Io ti ho insegnato tutto quello che sapevo. Ora tocca a te”. Estrasse dal grembiule consumato dal tempo le chiavi della bottega e gliele porse. “Costruisci il più bell’orologio che si sia mai visto.”
Fu l’ultima neve di quell’anno.
Poco prima di mezzanotte, le lancette del grande orologio della torre ripresero a muoversi.
Un tiepido e leggero soffio di vento fece tintinnare i cristalli di ghiaccio sugli alberi, destò dal lungo sonno il fiume e, mentre ogni cosa nella nostra città sembrava risvegliarsi, il vecchio orologiaio si sedette nella poltrona davanti alla finestra e, con un sorriso tranquillo e colmo di riconoscenza, lasciò correre un’ultima volta lo sguardo su quella vita che aveva tanto amato.

Tutti i diritti riservati © Claudia Mancino
Illustrazione di Anna Bertenasco