mercoledì 27 maggio 2015

Brutta

                           

Ci sono storie che non andrebbero mai raccontate, storie sepolte da secoli negli abissi più profondi del mare per proteggere e dimenticare dolori così tremendi da non poter essere sopportati.
  Accade, però, a volte, che durante le notti di eclisse totale, si apra un varco tra le maree più buie e che una di queste storie venga restituita alla terra perché le lacrime dei suoi abitanti possano lenire quel dolore che non troverà mai pace ma che, per una notte sola, chiede di essere ascoltato.

   C’era una volta, in un punto sconosciuto dell’oceano, una piccola isola che profumava di sabbia e fiori d’ibisco. I suoi abitanti avevano la pelle bruciata dal sole e meravigliosi capelli di seta, neri come le notti senza luna.
Fu in una notte di tempesta che una giovane sposa diede alla luce la sua bambina. La levatrice avvolse la minuscola creatura in un lenzuolo, le coprì delicatamente il volto e con le lacrime agli occhi la diede al padre perché facesse ciò che era giusto fare.
L’uomo si incamminò verso il mare, la bambina stretta al petto e gli occhi rivolti al cielo per supplicare gli spiriti della tempesta di portare sua figlia in un luogo capace di cancellare dal suo corpo la sofferenza.
“Non farlo!” gridò la moglie, lasciandosi cadere in ginocchio sulla sabbia.
L’uomo si voltò. “Ha i capelli bianchi”.
“Non importa”, pianse la giovane madre.
“I suoi occhi sono così chiari che il sole la ucciderà”.
“La proteggeremo”.
“Questa bambina appartiene al mondo degli spiriti. Qui troverà solo dolore”, disse l’uomo e  l’affidò dolcemente alle onde.
La madre guardò il mare che inghiottiva la sua creatura, poi con una forza che non sapeva di possedere, spinse via l’uomo che aveva amato più della sua stessa vita e si buttò in acqua, urlando agli spiriti della tempesta di concederle di vivere tanto a lungo quanto sarebbe vissuta la sua bambina.
“Altrimenti”, pregò, “lasciatemi morire con lei ora”.
All’improvviso il mare si calmò, le acque si ritirarono e in quella notte senza luna la donna prese tra le braccia una creatura di cui non aveva ancora visto il volto ma che sapeva di non poter fare a meno di amare.
  Il giorno dopo, la giovane madre nascose la bambina in un cesto, raccolse le poche cose che le appartenevano e fece ciò che nessuno  le aveva chiesto,  ma che tutti si aspettavano che  facesse: lasciò la sua casa, i suoi affetti e si incamminò verso l’altra parte dell’isola senza più voltarsi indietro.
   Lavorò senza sosta, per settimane, nella parte più buia del promontorio, perché la sua casa sorgesse là dove gli alberi   avrebbero nascosto la bambina dal sole e dal resto del mondo. 
   “Arriverai a odiarci”, sussurrarono gli spiriti delle fronde.
   “Guarderò il mare”, rispose la giovane madre.
   “Non hai ancora guardato lei.”
   “Quando sarò pronta, lo farò.”
  Ma il tempo passò e la giovane madre imparò a conoscere e ad amare la sua bambina attraverso le mani, sfiorando con dolcezza i lineamenti del suo volto nell’oscurità delle notti e stringendo a sé, nel sonno che sfuggiva alla luce impietosa del sole, quel corpo che non avrebbe mai visto il giorno.
Fu così che, nella piccola capanna sul promontorio, per amore di una bambina, si capovolse il corso della vita. In principio sembrò la sola cosa giusta da fare, ma con il passare dei mesi la giovane donna cominciò a deperire. Il buio la privò di tutto ciò che fino ad allora aveva dato senso alla sua vita.
La sua  pelle divenne  grigia  e grigi divennero anche i suoi capelli.
Fu allora che la giovane donna cucì per sua figlia un sacco  di tela robusta e, per la prima volta da quando era nata, la portò alla luce. Seduta di fronte al mare scintillante, con la bambina incappucciata tra le braccia, la madre pianse.
Poi, lentamente, il tempo riprese a scorrere.
La donna costruì una barca, recintò l’orto e quando la bambina cominciò a crescere e a diventare pesante, intrecciò pazientemente dei giunchi che le permettessero di legarla alla schiena. Imparò ad ignorare la stanchezza e la fatica e, col tempo, imparò a dimenticarsi il passato.
Ma arrivò il giorno in cui una terribile tempesta si abbattè sull’isola. La donna rimase a fissare l’oceano dalla cima del promontorio, chiedendosi se gli spiriti del mare fossero venuti a prendere lei e la bambina.
Si presero invece l’umile capanna, la barca e l’orto.
Quando la tempesta si placò la giovane donna non aveva più niente. E per la prima volta ebbe davvero paura. Cominciò a suonare il tamburo, più forte che poteva, giorno e notte, notte e giorno, senza mai fermarsi, fino a quando le sue mani cominciarono a sanguinare e, neppure allora, si arrese.
Quel tamburo sul promontorio suonò per un’intera luna, riportando  in vita  gli spiriti  della vergogna che,  notte dopo notte, si fecero strada attraverso l’isola per entrare nelle case della gente, impossessandosi dei loro sogni e nutrendosi del loro sonno.
   Ma quel richiamo disperato si perse nel silenzio.
Quando la giovane madre capì che nessuno l’avrebbe mai aiutata squarciò il tamburo, prese la bambina e con lei si incamminò verso l’acqua nera dell’oceano.
E lì, sotto una pioggia battente, urlò, il volto rivolto al cielo e, un passo dopo l’altro, andò incontro alle onde, chiedendo perdono alla bambina che non aveva mai visto e che senza sole era destinata a non diventare mai grande. La spinse dolcemente sott’acqua e per un breve istante vide ciò che sarebbe stata la sua vita senza di lei: avrebbe avuto altri figli, una casa luminosa e voci…  voci ovunque, capaci di ridarle ciò che anni di solitudine e silenzio le avevano rubato.
 Fu allora che dall’acqua si levò un bisbiglio e quel bisbiglio crebbe e si moltiplicò fino a diventare il canto più bello e triste che si fosse mai sentito. La donna sollevò la bambina dall’acqua, con il cuore che le martellava in petto, improvvisamente  consapevole  di  ciò  che  stava  facendo  e giurò a se stessa che mai più… mai più avrebbe permesso alla disperazione e alla paura di piegarla.
Da quel giorno, per molti anni, ogni volta che la giovane donna cedeva allo sconforto e alla solitudine, quel canto tornava a riempire l’aria.
Passarono tempeste e stagioni di siccità senza che lei si arrendesse. Con la figlia sempre legata alla schiena fece la sola cosa che poteva: visse.
Poi, un po’ per volta, cominciò a invecchiare.
Rughe sempre più profonde solcarono il suo viso e le sue mani divennero nodose. Ogni notte, al buio, toglieva il cappuccio di tela alla figlia, le pettinava senza fretta i lunghi capelli e si addormentava tenendo stretto accanto a sé quel corpo ancora esile, fino all’alba.
Anno dopo anno, la sua vita fu scandita dall’alternarsi sempre uguale delle stagioni e dal ripetersi delle piccole cose che le costavano sempre più fatica. Poi, quando pensava di non farcela più, sentiva quel canto che  accarezzava l’anima, e ancora una volta trovava la forza di andare avanti.
Lo fece per quasi duecento anni.
Poi, una sera, mentre risaliva il promontorio, udì il respiro della figlia spegnersi lentamente e seppe, con assoluta certezza, che gli spiriti della tempesta erano venuti a prenderla. La portò in casa e la cullò, così come aveva fatto per quasi due secoli, sopraffatta da un dolore che non avrebbe mai creduto possibile.
   Solo a notte fonda, quando fu pronta, la donna  prese in braccio il corpo della figlia e lo portò verso l’oceano. E fu lì, sotto il tenue chiarore della luna, che le tolse il cappuccio.
Lunghe ciocche chiare come il grano si aprirono nell’acqua e il volto assolutamente perfetto di una bambina con la pelle bianca si impresse nello sguardo impietrito della madre. Forse non era fatta per vivere alla luce del sole, ma quella bambina non era mai appartenuta al mondo degli spiriti.
La donna gridò la propria disperazione, stringendo al petto una creatura che il mondo aveva rifiutato e che era stata solo sua per tanto tanto tempo, poi, con gli occhi ormai ciechi per il dolore, si inabissò con lei nell’oceano.


In memoria di una bambina e di una madre , la cui storia non andrà mai perduta

Tutti i diritti riservati Claudia Mancino
Illustrazione Anna Bertenasco