Spiriti





Ci sono storie che non ci appartengono, storie che corrono parallele alla nostra per anni, destinate a toccare e sconvolgere luoghi e persone di cui dovremmo ignorare l’esistenza.
Accade però, a volte, che una di queste storie sfiori la nostra e ne modifichi, per sempre, il corso.
Accadde molto tempo fa, e accadde in quello che fu per me l’anno del dolore. Imparai allora, se non a comprendere, ad accettare che ci sono cose, nella vita, che non si possono cambiare e farlo significò per me perdere tutto ciò che fino ad allora avevo creduto inviolabile.
Iniziai allora a invecchiare, come solo il dolore sa far invecchiare dentro e a comprendere che l’innocenza che aveva scandito i miei anni di giovinezza non mi sarebbe stata mai più restituita.
Quell’inverno seppellii mio padre. Ma questa è un’altra storia. Fu, però, la sua morte a dare inizio a tutto. E fu allora che la mia storia si mescolò a una storia che non era destinata ad appartenermi, ma che trovò nel mio dolore un varco per insinuarsi sotto la mia pelle e non lasciarmi per molto, moltissimo tempo.
Quello stesso gelido inverno seppellii un uomo che senza saperlo, né forse volerlo, era stato, per me, un grande maestro.
Non andai al suo funerale. Non ne avevo diritto. Come forse non avevo il diritto di piangerlo. Perché chi sceglie di morire recide in modo irreversibile ogni legame. E io, io non ero nessuno. Nulla di ciò che potevo provare o sentire aveva il diritto di esistere. Non se paragonato all’inferno che si era spalancato sulla vita di chi lo aveva profondamente amato o all’inferno che lui aveva attraversato, in totale silenzio, prima di capire, con assoluta certezza, che esisteva una sola, terribile via d’uscita a qualcosa che faceva così maledettamente male da uccidere tutto ciò in cui aveva sempre creduto.
Io non ero nessuno.
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Ma, a modo mio, lo avevo amato anch’io. Avevo amato la sua saggezza, il suo sorriso sempre calmo e rassicurante, le storie che sapeva raccontare e quella nobiltà d’animo che lo rendeva semplicemente diverso. Perché il dott. L. era un uomo puro, come forse non ne esistono più. E a lui rimarranno legati i miei ricordi più belli di giovane madre, perché in un modo che non riuscirò mai a spiegarmi, averlo conosciuto contribuì a rendermi una persona migliore. Da lui imparai il rispetto quasi sacro per la vita che avevo portato in grembo e imparai a seguire, senza paura, il mio istinto, semplicemente perché era giusto così. Il resto venne col tempo, ascoltando le sue strane, folli storie e confessandogli cose che nessuno, sano di mente, si sarebbe mai sognato di confessare. Ma le mamme sono creature strane e credo che per questa stranezza lui nutrisse, come pediatra e come uomo, un enorme rispetto.
Oggi so che la sua morte mi devastò.
Dicono che ci vuole coraggio per ricominciare. Coraggio per affrontare il dolore, la paura, le lacrime. Coraggio per guardare avanti e lottare. Sempre.
Forse, ci vuole più coraggio a morire.
E se un uomo come lui era stato capace di uccidersi, allora poteva farlo davvero chiunque.
Fu così che quell’inverno vagai, senza quasi respirare, da un giorno all’altro, e a un altro ancora. Passai attraverso il mio dolore, e lo feci nel solo modo che allora mi era possibile. In silenzio prima, in modo tutt’altro che convenzionale poi. Credo che il termine esatto sia nevrosi. E io ci misi un certo impegno, se non altro perché quando faccio una cosa, la faccio bene. Non diedi fastidio a nessuno, non versai lacrime disperate e, naturalmente, sbagliai tutto. Ma dovevo scendere a patti con lo spettro della morte e se fosse stato necessario, se mi avessero detto che ballare nuda dal tetto dell’Empire State Building avrebbe lenito in qualche modo il mio dolore, lo avrei fatto.
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Feci, indubbiamente, di peggio. Mi concessi settantadue ore di pura follia, attraversando l’Europa in macchina con le ceneri di mio padre e le sole due persone al mondo capaci di trascendere, in nome dell’amicizia, il concetto di reato. Infransi la legge e con essa i tabù della morte, ma quel viaggio fu il solo modo per lasciar andare mio padre. E, che Dio mi perdoni, funzionò.
Vorrei poter dire che, dopo, ogni cosa tornò al suo posto. Per certi versi fu così. Col tempo, imparai a non odiare le giornate di sole o la gente che mi chiedeva quasi sottovoce come stavo, nella sola speranza che non rispondessi mai onestamente alla loro domanda. Imparai ad accettare che, ovunque fosse mio padre, non mi sarebbe mai stato concesso saperlo e imparai, un po’ per volta, a farmi meno male.
Ma la storia del dott. L., quell’inferno segreto che lo aveva portato al suicidio, mi rimase appiccicato addosso. E per molto, molto tempo, mi fu quasi impossibile scindere la sua morte da quella di mio padre.
Cominciai a ripercorrere, nelle notti di pioggia, le ore e i minuti che avevano preceduto il suo suicidio, chiedendomi cosa lo avesse spinto ad andare a morire là dov’era nato. Credo che, alla fine, volesse semplicemente tornare a casa, là dove niente e nessuno avrebbe più potuto ferirlo, là dove un tempo era stato capace di sognare e dove la memoria avrebbe riportato in vita, anche solo per qualche istante, l’uomo che era stato. Perché forse, qualcosa lo aveva ucciso molto prima che la morte si presentasse ai suoi occhi.
E questo pensiero mi faceva paura.
Quando tutto smette di avere importanza.
Quando un uomo non spera nulla, non aspetta nulla, non chiede più nulla. Se non la forza di porre fine alla propria disperazione.
Mio padre mi aveva insegnato il coraggio di morire con dignità. Per amore.
Il dott. L. mi aveva insegnato che il dolore può uccidere.
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Mi fidavo di lui. Ciecamente. Eppure non lo conoscevo davvero. Non conoscevo la sua storia, la sua famiglia, il suo passato. Della sua morte sapevo solo ciò che i giornali avevano scritto.
Quando tutto smette di avere importanza.
Arrivò la primavera e poi l’estate, e il tempo allontanò le lacrime. O perlomeno così mi parve. Avevo sepolto due uomini straordinari ed ero sopravvissuta.
Era forse questo, più di ogni altra cosa, a darmi fastidio. Quel mondo che entrambi, una volta, avevano amato continuava a esistere. Ogni cosa era rimasta immutata. Non che mi aspettassi qualche catastrofe naturale, intendetemi, ma un’eclisse di sole o un violento quanto inspiegabile fenomeno elettromagnetico mi sarebbe stato d’aiuto. La verità è che avevo bisogno di un segnale.
Che, naturalmente, non arrivò mai.
Con la fine dell’autunno anche la rabbia sbiadì. E io instaurai con le mie nevrosi un rapporto di reciproca non belligeranza.
Se avevo perso il controllo sulla mia vita, avevo invece sviluppato una singolare quanto nevrotica capacità di controllo su tutto ciò che mi circondava. In altre parole, divenni l’emblema dell’efficienza, dell’organizzazione e della creatività casalinga. Lo so, detto così, suona ridicolo. Ma inamidare e piegare mutande secondo una precisa logica cromatica o assicurarmi che ogni cosa, dalle carote ai calzini, fosse riposta secondo un impeccabile quanto maniacale ordine mi sembrava, allora, più accettabile che soffrire. E funzionò, perché per diversi mesi riuscii a tenere a distanza di sicurezza qualcosa che, fino ad allora, non avevo messo in conto di provare. La paura.
Tirai avanti così, lasciando che i fantasmi popolassero le mie notti e sterminando meticolosamente granelli di polvere durante il giorno. Come compromesso non era male. Forse un tantino fuori dal comune, d’accordo, ma in fondo non facevo male a nessuno.
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Poi arrivò dicembre.
Vedete, il fatto è che io adoro il Natale. Adoro addobbare l’albero, incartare i pacchetti, preparare i biscotti e cantare Jingle bell a squarciagola in giro per la casa. Adoro le storie di Natale raccontate davanti al caminetto, gli occhi colmi di meraviglia dei miei bambini che si perdono tra le parole di quei libri che tanto tempo fa sono stati capaci di far sognare anche me e adoro quella magia che si respira nell’aria perché mi sento autorizzata, senza vergogna, a tornare ragazzina. Ed è una bella sensazione.
Quel Natale, però, non sarebbe stato facile. Per nessuno di noi.
Ma ero decisa a renderlo il più dolce possibile perché, dentro di me, sentivo che se avessi permesso al dolore di portarsi via il Natale, non lo avrei ritrovato mai più.
Cominciò a nevicare ai primi di dicembre. Nevicò sui tetti della città, sulle strade illuminate di stelle e pianeti, nevicò sui tram e nevicò in casa mia. Un soffice, freddo manto di neve ai piedi di una finestra lasciata aperta.
E io… io ci vidi un segno. Probabilmente, considerato il mio discutibile stato emotivo, avrei visto un segno anche in una cacca di piccione sul davanzale, ma quella neve, in camera mia, quell’odore d’inverno che sembrava riemergere dal passato, non potevano essere un caso.
Nevicava il giorno in cui morì mio padre.
Secondo un antico detto, saggio è colui che lascia aperta una finestra perché lo spirito possa entrare.
Lo spirito.
D’accordo, non è esattamente quella che si potrebbe definire una visione matura e responsabile della vita, ma gli spiriti esistono. Bisogna solo saperli vedere. Sono la nostra storia, prima che tutto avesse inizio, la memoria di un passato lontano, che la nostra mente conserva al di là di ogni razionale comprensione.
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E volete sapere una cosa? Al diavolo il buonsenso e la creatività casalinga. Mi mancava mio papà. E mi mancava il dott. L. Potevo continuare a inamidare camice e calzini, affettare zucchine con la precisione di un chirurgo, comporre pietanze da far impallidire l’architetto dei giardini d’inverno di San Pietroburgo e sterminare qualunque cosa mi volasse sotto il naso, ma la verità era che avevo bisogno di dire addio al dott. L. a modo mio.
Accadde così. Semplicemente. Come solo le cose belle sanno accadere.
E tutto divenne più facile.
Tornai a respirare, come se quell’odore d’inverno, entrando improvvisamente in casa mia, mi avesse in qualche modo restituito l’aria e, un po’ per volta, tornai a fare cose, senza importanza forse, ma che la morte aveva portato via con sé, molto tempo prima.
Esistono migliaia di prime volte, dopo. All’inizio fanno male. Poi ci si abitua. Forse perché se fossimo in grado di sentire il dolore e la disperazione con la stessa intensità con cui li viviamo in principio, non potremmo sopportarlo.
Forse era questo che aveva ucciso dott. L. Forse non aveva saputo lasciare una finestra socchiusa. O, forse, aveva seguito uno spirito silente, oscuro, verso gli abissi di un mondo parallelo da cui, poi, non era stato capace di tornare indietro.
Non vado fiera del modo in cui allora affrontai le mie paure. Molte delle cose che feci, rischiarono di ferire le persone che amavo. La verità è che fui fortunata. Tutto lì.
Iniziò con la neve. Una lenta, progressiva consapevolezza di un dolore che mi aveva investito come un’onda d’urto, ma che, forse, non era destinato ad appartenermi e che aveva fatto di me un’intrusa in una storia che nessuno mi avrebbe mai raccontato. Eppure, in qualche modo, quella storia si era intrecciata alla mia e io non potevo fingere che non fosse accaduto.
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Aspettai che passasse il Natale. Avevo smesso da tempo di avere fretta. Regalai ai miei bambini una notte di magia perché potessero, negli anni, conservare il ricordo di quel Natale imbiancato dalla neve e mi preparai a qualcosa che non avrebbe avuto senso per nessuno, tranne che per me.
Il primo passo fu la lista.
D’accordo, non serviva una lista, ma rinunciare alle mie nevrosi, tutte in una volta, era, onestamente, una pretesa eccessiva. Organizzai e valutai ogni cosa, ogni singolo insignificante dettaglio con la stessa fredda meticolosità di un serial killer e quando una sera di metà gennaio salutai mio marito in partenza per Parigi, tutto, davvero tutto, era così come lo avevo pianificato.
Tranne che per un dettaglio.
Le mie due più care amiche.
Ora, considerando che viviamo in tre diverse città, sufficientemente lontane da giustificare imbarazzanti bollette telefoniche, le probabilità che loro si presentassero, insieme, alla mia porta erano pari a zero.
Fu, invece, esattamente ciò che accadde.
E fu così inaspettato da neutralizzare, in una frazione di un secondo, ogni mia capacità di reazione, se non un improvviso quanto folle desiderio di urlare abracadabra e vederle scomparire con la stessa velocità con cui erano apparse.
“Cerca di non ammazzarti dalla gioia”, disse Sabina, entrando.
Ora, Sabina aveva sempre avuto una visione indiscutibilmente personale del concetto di diplomazia. Nei lunghi anni di amicizia che ci legavano, avevo imparato ad accettare da lei cose che non avrei accettato da nessun altro, perché le volevo bene e perché, in fondo, il suo sprezzo per le più elementari regole sociali la rendeva la persona più diretta e onesta che conoscessi. Bisognava solo esser capaci di non dare troppo peso alle parole e ricordarsi che Sabina possedeva una straordinaria capacità di ignorare quel prezioso, quanto indispensabile, filtro che collega cervello e lingua.
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“Dov’è Corrado?” mi chiese, guardandosi in giro.
“A Parigi”.
“E i bimbi?”
“A Milano. Da mia mamma”.
“Curioso, arriviamo proprio da lì”.
“Tu dovresti essere a Trieste,” le feci notare.
Lei mi sorrise. “Sorpresa.”
Già, sorpresa. Mi ci vollero meno di tre secondi per capire che ero nei guai e altri tre per avere la certezza che non ne sarei uscita. Perché Sabina era molto incinta e perché accanto alla mia porta erano parcheggiate due borse da viaggio.
“Sorpresa”, ripeté Silvana in un disperato tentativo di apparire euforica e fu allora che capii che qualunque fosse la ragione che le aveva portate da me, non me la sarei cavata con una semplice tazza di caffé.
Altro che abracadabra. Ci voleva un esorcismo.
“Così sei sola,” concluse Sabina, poco convinta.
“Già”.
“E Corrado è a Parigi”.
“Esatto”.
“E i bambini a Milano”.
“Esatto”.
“Hai un amante?”
Oddio! Per un attimo mi venne quasi da ridere. “Non ancora, ” la rassicurai.
“Se lo dici tu.” E mi lanciò un lungo sguardo penetrante come per diffidarmi di non offendere la sua intelligenza.
Okay, forse guai erano un termine ottimistico. Mi ritrovai a sorridere, un sorriso a metà tra il panico e la rassegnazione, mentre tentavo di elaborare una spiegazione più che plausibile a una situazione che mi stava decisamente sfuggendo di mano. Troppo tardi, mi resi conto che non ero tenuta a giustificare proprio nulla. Insomma, ero a casa mia, sola. E allora?
Allora aveva ragione lei. Non nel senso che avessi un amante, ma che stavo nascondendo qualcosa e per un brevissimo, ridicolo attimo considerai davvero l’eventualità di ammettere l’esistenza di un altro uomo. Solo che non avrebbe funzionato. Non con loro.
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“E’ solo incinta”, tentò di sdrammatizzare Silvana, mettendo sul fuoco l’acqua per il tè. “Ha i piedi gonfi, le tette fuori misura e la spiacevole sensazione di non avere più il controllo sulla propria vita.”
Perlomeno ora avevo un quadro piuttosto chiaro della situazione. Sabina stava soccombendo agli ormoni. E come ogni donna dotata di un minimo di capacità intuitiva, aveva capito che, volente o nolente, il suo corpo aveva definitivamente preso il sopravvento sulla mente.
“Okay”, sospirai, sedendomi a tavola con loro. “Cos’è successo?”
“Rutto come uno scaricatore di porto”, mi informò Sabina con la stessa naturalezza con cui mi avrebbe comunicato di avere un raffreddore.
“Aspetta di arrivare al nono mese”, ridacchiò Silvana e, per un attimo, mi chiesi se fosse impazzita.
Sabina, invece, decise di ignorarla. “E mi sono venute le emorroidi.”
“Aspetta di partorire”, continuò Silvana, serafica. Questa volta Sabina le lanciò uno sguardo assassino.
“E’ la pura verità”, si giustificò Silvana sulla difensiva.
“Io non la voglio la verità. Okay?“
“Senti”, intervenni, con tutto il tatto possibile, “sono cose che succedono. Sei semplicemente incinta.”
“Beh, non voglio più esserlo, non così. Guarda le mie tette. Hai idea di cosa significa convivere con queste?”
Oh sì, ce l’avevo.
“Ho dovuto rinunciare al corso di danza afro-cubana,” mi informò imperturbabile.
Va bene, forse la danza afro-cubata non è esattamente una delle attività fisiche consigliate alle donne incinte di sette mesi, ma mi sarei mangiata la lingua piuttosto che ricordarglielo.
9

“Detesto i vestiti pre-maman,” continuò Sabina, scartando l’ennesimo cioccolatino, “la gente che mi tocca la pancia, i consigli su cosa devo mangiare o i libri che devo leggere per prepararmi al parto, e vuoi sapere una cosa? Forse io non sono tagliata per questa roba.” Lo disse così, guardandomi dritto negli occhi, senza vergogna. E io mi ritrovai a sorridere perché gli ormoni sono una gran fregatura e perché c’erano dettagli delle mie gravidanze che non avrei confessato nemmeno sotto tortura.
“Sono al liquore”, la informai, indicando la scatola di cioccolatini.
“Vuol dire che diventerò un’alcolizzata”.
“Vomiterai”.
“Vomiterò comunque. Tanto vale godersela”.
Le sfilai la scatola da sotto il naso. Veder vomitare Sabina era un’emozione di cui facevo volentieri a meno.
Tre barattoli di sottaceti e un chilo di gelato più tardi, Sabina aveva ritrovato un po’ di buon umore. Anche Silvana cominciò a rilassarsi. Avevo un’idea abbastanza precisa di come dovevano essere state le ultime ore che avevano trascorso insieme, ma mi guardai bene dal fare domande, perché nonostante tutto, nutrivo ancora la speranza di riuscire, in un modo o nell’altro, a portare a termine ciò che avevo progettato.
E dovevo farlo da sola. Non perché loro non avrebbero capito, ma perché si trattava di qualcosa di maledettamente troppo difficile da spiegare.
Quando morì mio padre, io smisi, contro ogni logica, di aver paura della morte. Fu una sensazione strana, quasi liberatoria. Pensai che se ero stata capace di sopportarlo, allora avrei sopportato tutto. Ma mi sbagliavo, perché il giorno in cui morì il dott. L., quel mondo lontano e rassicurante che avevo immaginato per mio papà, smise, all’improvviso, di esistere. E la paura tornò.
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La sola cosa che sapevo era che rivolevo indietro la mia vita, così com’era sempre stata. Volevo potermi svegliare al mattino senza avere la sensazione che nulla sarebbe più tornato come prima, volevo poter guardare il cielo e le nuvole e gli alberi senza chiedermi se un giorno tutto ciò che avevo amato avrebbe smesso di avere importanza.
Il lutto è un enorme buco nero. E io non ero più sicura che fosse giusto starci. Ma sapevo che chiuderlo avrebbe significato non conoscere mai la verità sul dott. L. e sulla sua morte.
Mi ci sarebbero voluti anni per capire che dare un nome ai propri fantasmi significa saperli accettare così come sono, senza cercare ad ogni costo un perché. E col tempo avrei anche capito che il dolore che aveva portato il dott. L. al suicidio non chiedeva altro che rispetto. Per l’uomo che era stato, per ciò che aveva saputo dare.
Il resto non aveva importanza.
Ma ero giovane e avevo un bisogno quasi disperato di definire le cose, di comprenderle fino in fondo perché farlo mi dava l’illusione di poterle, in qualche modo, controllare.
Era forse per questo che dirgli addio era diventato così importante. Volevo essere io a lasciarlo andare. E spiegarlo a qualcun altro era più di quanto fossi pronta a fare.
Mi sono spesso domandata come sarebbe stata la mia vita se il destino avesse tenuto me, Sabina e Silvana legate alla stessa città. Forse sarebbe stato tutto più facile.
Forse.
Ma non era andata così. Ero stata io la prima ad andar via, senza sapere che un giorno tutto ciò che avevo sempre dato per scontato mi sarebbe terribilmente mancato. Perché loro erano la parte migliore di me. Erano la mia infanzia, i miei sogni a occhi aperti, il ricordo di una felicità semplice, senza complicazioni.
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E averle accanto, mi dava la meravigliosa sensazione di essere tornata a casa.
Conviverci, naturalmente, era tutt’altra cosa. Non tanto per quelle abitudini che da sempre ci rendevano profondamente diverse, quanto per il fatto che avevamo vissuto vite separate per così tanto tempo da aver dimenticato cosa significasse. Così, mentre Sabina si apprestava a entrare in sintonia con l’ambiente, meditando al centro del mio salotto in una posizione da cui probabilmente non sarebbe più riuscita a districarsi, Silvana passava in rassegna alla mia dispensa, per assicurarsi che non dimenticassi che si stava avvicinando l’ora di cena.
E io non avevo ancora capito cosa ci facevano loro due a casa mia.
“Su cosa sta meditando?” chiesi a Silvana.
“Controllo del dolore.” Le scappò una risatina. “Sarà un parto interessante.”
“Magari funziona”.
Silvana mi guardò come se avessi detto un’idiozia colossale.
“D’accordo,” risi, “è probabile che non funzioni, ma non sarò certo io a dirglielo.”
“Nemmeno io.”
“C’è qualcosa che dovrei sapere?” azzardai dopo un po’.
“Non lo so”.
“Come sarebbe a dire che non lo sai?”
“Che non ho la più pallida idea di cosa diavolo stia succedendo.”
“E ti sembra normale?”
Mi guardò dritto negli occhi. “Perché, Sabina ti è mai sembrata normale?”
Scoppiai a ridere. “In effetti, no.”
“Appunto.” Incrociò le mani sotto il mento e mi sorrise. “Cosa si mangia?”
Questa è Silvana. Avrei potuto dirle che mi ero appena separata o che nel mio armadio era nascosto un uomo nudo e lei non avrebbe fatto una piega. Era l’ora di cena. Qualunque dramma, che non implicasse l‘intervento di un‘ambulanza, poteva aspettare.
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Non so se fu questo pensiero a irritarmi di più o l’improvvisa consapevolezza che non ci sarebbe mai più stata un’altra occasione per stare sola con i miei fantasmi. So solo che provai il folle, irrefrenabile impulso di scioccarla.
E lo feci davvero.
Niente cena”, dissi con sorprendente calma.
Silvana smise di colpo di sorridere. “Come sarebbe a dire niente cena?”
“Che non si mangia”.
“Perché no?”
“Perché voi non dovreste essere qui”.
Dal salotto arrivò un silenzio innaturale.
Bene, almeno avevo ottenuto l’attenzione di entrambe.
“Avevo calcolato tutto“, spiegai in un tono che risultò più inquietante di quello che avrei voluto. “Due lunghissimi giorni solo per me. Nessuno si sarebbe accorto di niente. Era un piano semplicemente perfetto.”
“Frena”, disse Silvana, i cui campanelli d’allarme dovevano aver cominciato a suonare tutti insieme. “Di qualcunque cosa si tratti, non la voglio sapere.”
“Io sì”, disse Sabina, affacciandosi alla porta della cucina e per un istante mi parve di vederla sorridere, come se avesse sempre saputo ciò che stavo per dire.
Le guardai entrambe, in silenzio, poi respirai a fondo e dissi loro la verità. “Devo cercare una tomba.”
“Oddio!” gemette Silvana, lasciando cadere la fronte sul tavolo. “Non di nuovo!”
“Non è come pensi tu.”
Okay, era una frase idiota, lo so, ma date le circostanze era anche l’unica che mi era venuta in mente.
Silvana sollevò la testa, quel tanto che bastava per lanciarmi una lunghissima, inequivocabile occhiataccia. “L’ultima volta che hai detto una cosa del genere,” mi ricordò, “ IO mi sono ritrovata a fare la becchina.”
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“Becchina mi sembra un termine un po’ forte”, la corressi.
“Ho viaggiato con le ceneri di tuo padre nel portabagagli della MIA macchina, illegalmente, attraverso mezza Europa. Come vogliamo definirlo?”
D’accordo, aveva ragione. Becchina era la definizione giusta, se non si consideravano le sfumature. Ma avevo dei seri dubbi che, in quel preciso momento, Silvana fosse disposta ad accettare il concetto di sfumatura. Naturalmente sapevo che mi aveva perdonato per ciò che allora le aveva chiesto di fare, ma avevo la netta sensazione che, questa volta, non mi avrebbe concesso la stessa indulgenza.
“Dov’è il cadavere?” chiese, senza mezzi termini.
Mi sforzai di non ridere. “Non c’è nessun cadavere”.
“Qualche resto?”
“Silvana!” La fissai, esterrefatta. Va bene, ammettiamo pure che avessi qualche problema, ma pensare che fossi capace di tanto mi sembrava onestamente sconcertante.
“Di chi è la tomba?” mi chiese Sabina con inaspettata dolcezza.
“E chi se ne frega di chi è la tomba!” gracidò Silvana. “Oddio, non posso credere che stiamo avendo una conversazione del genere.”
“Del dott. L.”, risposi, ignorando quella si prospettava essere una crisi isterica in piena regola.
“Sapete cosa vi dico? Me ne torno a casa, mi prendo un bel sonnifero e fingo che non sia mai successo.”
Sabina non la degnò della minima attenzione. “Sai dove cercare?” mi chiese.
“Non esattamente.”
“Ansiolitici”, ci informò Silvana. “Credo di aver bisogno di ansiolitici.”
Sabina continuò a ignorarla. “E’ tanto importante?”
“Più di quanto immagini”.
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“… dopodiché mi negherò al telefono fino a quando non avremo ridefinito, una volta per tutte, i termini della nostra amicizia.”
“E se non la trovassi?” mi chiese Sabina, senza smettere di guardarmi e, in quell’istante, seppi che lei aveva capito e che qualunque cosa le avessi risposto, avrei avuto il suo appoggio incondizionato.
“Almeno ci avrei provato,” dissi onestamente.
Sabina annuì. “D’accordo.”
“D’accordo cosa?” balbettò Silvana.
“D’accordo, lo faremo”.
Silvana emise un lungo, disperato gemito.
“E piantala,” la zittì Sabina. “Se trovare quella tomba è tanto importante per lei, noi due le daremo una mano.” Poi tornò a guardarmi. “Di quanti cimiteri stiamo parlando?”
“Una quarantina”, buttai lì, in tono casuale, ma non funzionò perché Silvana strabuzzò gli occhi come se le avessi appena proposto di seppellire vivo il suo criceto. Rimase in silenzio per un tempo che parve interminabile, poi si afflosciò sulla sedia, sollevando entrambe le braccia in un drammatico gesto di resa.
“Un tranquillo week-end col morto,” concluse e fu allora che, suo malgrado, le sfuggì il primo vero sorriso.
Fu questo il principio di qualcosa a cui, ancora oggi, non so dare un nome. So solo che se avessi chiesto a chiunque altro di seguirmi, avrei rischiato di essere etichettata come pazza. Perché la morte spaventa. E perché io, contro ogni logica, mi ostinavo a tenerla per mano.
La verità è che non saprò mai cosa sarebbe accaduto se il dott. L. non fosse morto lo stesso inverno in cui morì mio padre. Forse mi avrebbe fatto meno male, forse sarei stata capace di piangerlo, senza che la sua storia mi entrasse dentro, o forse avrei agito esattamente come feci allora.
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Sta di fatto che nessuna di noi tre, quella sera, aveva idea di dove ci avrebbe portato la nostra ricerca. Rimandammo la nostra partenza di qualche ora e, con grande gioia di Silvana, iniziai a preparare la cena. E mentre affettavo e tagliavo e mettevo sul fuoco l’intero equivalente del mio frigorifero, Silvana vagava per casa, studiando e memorizzando ogni dettaglio che poteva fornirle una, anche se minima, prova del mio discutibile equilibrio mentale. Immagino che abbia guardato ovunque, armadio compreso. Forse sperava davvero di trovarci un uomo.
Sabina, invece, sistemò la sua pancia davanti al computer e in poco meno di mezz’ora stampò una lista dettagliata di tutti i cimiteri ai confini con la valle d’Aosta, unita all’itinerario gastronomico dalla guida Michelin.
Fu così che, quella sera, ci trovammo sedute a tavola, a parlare di pappe, di pannolini e di cimiteri. E fu solo allora che Sabina ci confidò il vero motivo per cui si trovava lì.
“Fabrizio mi vuole sposare”.
“Ma è fantastico!” esultò Silvana, ma prima ancora di arrivare a metà frase, la voce le morì in gola. “Non è fantastico?” tentò di indovinare, rivolgendomi uno sguardo disperato e alla fine, con qualche secondo di ritardo, ci arrivò. “Okay, decisamente non è fantastico”.
“E sapete perché mi vuole sposare?” continuò Sabina, torturando con la forchetta il cibo che aveva nel piatto.
Entrambe scuotemmo la testa in attesa della bomba.
“Perché aspetto un maschio. Ecco perché.”
Chiaro.
Oddio. Serrai le labbra e mi sforzai di assumere un’espressione di sentita partecipazione. Un maschio in casa Bernardi era l’equivalente di una catastrofe naturale.
E Silvana doveva saperlo, esattamente come lo sapevo io. Ma, invece di starsene zitta, disse la sola cosa che non doveva dire.
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“Ma sei scema?”
“E’ un maschio”, ripeté Sabina, come per concederle il tempo di assimilare correttamente l’informazione.
“Ho capito. E allora?”
“Io volevo una femmina. Mia madre ha avuto quattro femmine e tutte le mie sorelle hanno messo al mondo femmine.”
“Guarda che non sei mica incinta di un alieno!”
Sabina non si scompose. “Gli uomini sono quanto di più simile a un alieno io riesca a immaginare”.
“Allora deve esser stato un concepimento davvero interessante.”
“Vai a cagare”, disse Sabina senza scomporsi.
“Perché avrai ben fatto sesso con un uomo per rimanere incinta.”
“Fabrizio non è un uomo nel senso canonico del termine. O perlomeno non lo era prima di sapere che aspetto un maschio.”
Silvana la guardò perplessa.
“Ha comprato una scatola di sigari”, disse Sabina come se questo spiegasse ogni cosa. “E subito dopo mi ha chiesto di sposarlo.”
“Che uomo di merda”, commentò Silvana.
“Vai a cagare”, ribadì Sabina.
Questa volta Silvana si girò verso di me. “Vuoi dirle tu qualcosa, per favore.”
Io sfoderai un sorriso imbarazzato. “Chi vuole un caffè?”
D’accordo, forse avrei dovuto dire la mia, se non altro per correttezza, ma defilarmi mi parve, in quel momento, una scelta infinitamente più saggia che mettere becco in una discussione in cui non mi sarei avventurata neanche morta.
“Claudia ha due maschi. Io uno. E sono semplicemente fantastici,” disse Silvana, più tardi, mentre imboccavo l’autostrada. “Credimi, ti ci abituerai”.
“Non mi sposo lo stesso.”
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“Certo che no. Perché dovresti? Hai trovato un uomo che ti adora, aspetti un figlio da lui e come se non bastasse lui ti ha chiesto di sposarlo. La maggior parte delle donne ucciderebbe per questo.”
“Io non sono la maggior parte delle donne.”
Silvana sbatté innocentemente le palpebre. “Ma va?”
“Sentiamo, cosa credi che dovrei fare?”
“Andare in giro per negozi a cercare un corredino per il tuo bebè, per esempio. Rimbecillirti davanti ad un paio di calzini così minuscoli da non riuscire a infilarli nel tuo mignolo, commuoverti per un film d’amore che hai visto almeno dieci volte, mangiare tonnellate di fragole…”
“Io sono allergica alle fragole”, le ricordò Sabina con una certa soddisfazione.
“Papaia, ciliegie, kikinger,” si innervosì Silvana. “Quello che cavolo vuoi, ma fatti venire una voglia normale, perché questo tour per cimiteri è assolutamente, indiscutibilmente insano”.
Sabina si accarezzò la pancia. “La vita e la morte sono due facce di una stessa medaglia. Forse ciò che sta accadendo non è così casuale come sembra.”
Fu allora che mi accorsi che aveva cominciato a nevicare. Rallentai, un po’ per volta, fino ad accostare e dopo un attimo di esitazione, spalancai lo sportello della macchina e scesi. Non avevo la più pallida idea di dove fossimo. La sola cosa che riuscivo a pensare era che ancora una volta nevicava. Volsi lo sguardo al cielo scuro come la pece e fissai, incredula, lo spettacolo più bello che avessi mai visto. Migliaia di fiocchi di neve che venivano verso di me, in mezzo al nulla. Respirai a fondo, chiedendomi per quale strana ragione le cose più semplici riuscivano sempre, nonostante tutto, a spalancarmi il cuore.
18

Il giorno in cui morì mio padre raccontai ai miei bambini che la neve era il modo in cui il nonno aveva scelto di dirci addio. E nulla potrà mai cancellare dalla mia memoria l’espressione dipinta nei loro occhi di bambini, di fronte a qualcosa di così grande e triste come la morte, e al tempo stesso magico come la neve. Da allora, per anni, ogni volta che nevicava, loro si precipitavano alla finestra, sicuri che da qualche parte lassù, il nonno stesse cercando di dire loro quanto li amava. Non so se sia stato giusto o sbagliato. Ma fu il mio modo di proteggerli. E di tener vivo il ricordo di un uomo straordinario che loro, con gli anni avrebbero dimenticato, ma che io non avrei mai smesso di amare.
Non ho mai raccontato loro la verità sul dott. L. Forse non volevo che la morte li toccasse un’altra volta. Erano troppo piccoli e io troppo spaventata. Inventai un trasferimento a Roma e, anche se non saprò mai se mi credettero o no, so che la sua scomparsa li turbò. Perché i bambini riconoscono il dolore. Sempre.
Ma la neve, quel magico portale verso il regno dei morti, sarebbe rimasto vivo nei loro ricordi per tutta la vita. Forse un giorno, quando sarei stata abbastanza vecchia da sapere che ogni cosa accade semplicemente perché deve accadere, avrei raccontato loro dell’odore d’inverno entrato in casa nostra, guidandomi verso una strada che avevo smarrito molto tempo prima.
Decisi, invece, di dire tutta la verità a Sabina e Silvana. Pretesi che scendessero dalla macchina e che alzassero lo sguardo verso il cielo. E fu lì, nel silenzio più totale, che raccontai loro ogni cosa, senza vergogna, perché per la prima volta dopo tanto tempo, avevo la sensazione di poter essere nuovamente felice.
“E’ un segno”, mormorai, alla fine. Naturalmente Silvana mi fece notare che l’unico segno, a suo avviso, inconfutabile era l’arrivo di una polmonite.
19

Ma è un vigile e pretendere che riesca a cogliere il lato trascendentale delle cose è al di sopra delle sue possibilità. Sabina invece si commosse, anche se immagino che i suoi ormoni giocarono a mio favore.
“Credi davvero che fosse il suo spirito?” mi chiese quasi sottovoce.
“No. Non nel senso che intendi tu.”
“Però qualcosa ha varcato quel portale.”
“Forse a varcarlo sono stata io.”
Silvana fece un passo indietro. “Se ora mi dici che parli con i morti io mi metto a urlare”.
“Credi che sia davvero possibile?” volle sapere Sabina.
“Io non so più niente, tranne che era un uomo straordinario e che ogni singola cellula del mio corpo si rifiuta di accettare che sia morto così. Era un puro, Sabi, sapeva leggerti dentro, senza mai giudicare. A volte, avevo la sensazione che avesse visto tante e tali cose da conoscere la natura umana, forse, più di quanto in realtà desiderasse. E l’idea che un uomo come lui non esista più è quasi inconcepibile.”
Sabina mi guardò a lungo. “Forse è stata proprio la sua purezza a portarlo alla morte. Ci hai mai pensato?”
Sì, ci avevo pensato. Per settimane e mesi dopo la sua morte non avevo fatto altro che chiedermi perché. Avevo perfino sperato che fosse molto malato e che avesse scelto di anticipare ciò che comunque sarebbe accaduto perché, più di chiunque altro, era cosciente di ciò che significava morire, un giorno dopo giorno, lentamente, inesorabilmente. Ma il dott. L. non era un vigliacco. E volete sapere una cosa?
Quando morì, accade una cosa strana. Io dovetti difenderlo. Un grande professore, un medico stimato e rispettato dall’intero mondo accademico aveva commesso un peccato innominabile. Era morto per mano propria.
20
Fu spaventoso. All’improvviso, tutti si sentirono autorizzati a giudicare un uomo che neanche avevano conosciuto, come se farlo li preservasse da chissà quale terribile male.
Vade retro satana.
Non avrei dovuto permettere ai loro stupidi commenti di ferirmi. Non avrei dovuto neanche degnarli della mia attenzione. Voglio pensare che sia stata la paura a spingerli a tanto, a conversare amabilmente del suo suicidio con la stessa leggerezza con cui si sarebbero scambiati la ricetta della crostata di mele, ma ancora oggi, una parte di me sospetta che accanto alla paura ci fosse un infinitamente più triste bisogno di protagonismo. Perché all’improvviso tutti lo conoscevano o avevano conosciuto qualcuno che lo conosceva. E furono sprecate troppe, troppe parole.
Non sarò mai capace di essere obiettiva sulla morte del dott. L. e su ciò che fu detto dopo. So solo che odiai quelle persone, come forse non avevo mai odiato nessuno in vita mia.
E decisi di proteggerlo, semplicemente smettendo di nominarlo. Prima o poi sarebbe accaduto qualcosa, forse non di altrettanto drammatico, ma sufficientemente eclatante da solleticare le lingue dei benpensanti e portarli a gettarsi alle spalle la storia del dott. L., così come si fa con un abito smesso.
Era dunque così che funzionava?
“Aveva due figli”, dissi sottovoce. “Come può aver fatto una cosa del genere a loro?” Alzai lo sguardo al cielo e sentii le lacrime bruciarmi contro le palpebre.
La neve cadeva sempre più fitta.
Sabina e Silvana rimasero in silenzio. Sapevo che non sarebbe mai esistita una risposta a quella domanda, ma avevo bisogno di formularla ad alta voce perché farlo significava lasciar defluire la parte più profonda del dolore, quella che non conosce parole.
21
E fu allora che Silvana fece una cosa assolutamente sorprendente. Mi abbracciò. Fu un abbraccio goffo, appena accennato, tanto che ancora oggi mi chiedo se sia davvero avvenuto. Di qualunque cosa si fosse trattato, fu il primo e unico gesto d’affetto, in oltre trent’anni d’amicizia, che implicò un contatto fisico tra noi due.
Lei si ricompose immediatamente e io finsi che non fosse successo niente. Ma qualcosa era accaduto. Con quell’abbraccio così inaspettato, Silvana aveva spezzato la mia linea del dolore. Perché lei, forse più di me, aveva capito che se non fossi tornata indietro, subito, la storia del dott. L. mi avrebbe ossessionato per il resto della mia vita.
Forse è a questo che servono gli amici.
A riportarti a casa quando ti perdi.
“Sono io che tengo in vita il suo spirito”, dissi e, all’improvviso, mi ritrovai a sorridere perché Silvana si lasciò sfuggire un gemito strozzato, probabilmente più turbata di quanto volesse dare a vedere. “Spiriti, non fantasmi”, cercai di tranquillizzarla. “Qualcosa rimane, Silvi, altrimenti che senso avrebbe tutto questo?”
“Vuoi dire che ce l’abbiamo in macchina?” si informò lei, guardandomi in modo strano.
Io risi. “Non proprio.”
“Allora dov’è?”
“Forse dentro di me”, mi divertii a prenderla in giro.
Silvana mi fissò, serissima. “Stai cercando di farmi credere che sei posseduta dallo spirito del tuo pediatra?”
“Forse si tratta semplicemente di un caso di personalità multipla”, diagnosticò Sabina e di fronte all’espressione inorridita di Silvana, scoppiammo entrambe a ridere come ragazzine.
“Non ci vedo niente di divertente”, disse Silvana, fingendosi offesa. “Per l’esattezza tutta questa situazione è la cosa più lontana dal divertimento che io riesca a concepire. E’ macabra, ecco cos’è. Dio, sento che mi sta tornando la forfora. Grazie, grazie tante.”
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“Silvana?” cercai di interromperla.
“Non mi parlare”.
“Voglio solo dirgli addio.”
“E non puoi farlo in un modo un po’ più convenzionale?”
Scossi la testa. “Gli volevo davvero bene.”.
“Quando muoio, voglio i fuochi d’artificio”, disse Sabina, spalancando le braccia sotto la neve.
“Quando muoio io, voglio rimanere morta e stecchita per l’eternità, quindi,” ci minacciò Silvana, “scordatevi di venire al mio funerale. Tutte e due.” E senza aggiungere una sola parola, risalì in macchina. Ma mi bastò guardarla per capire che stava cercando di immaginare quale grandioso addio Sabina e io le avremmo riservato nel caso in cui fosse stata lei la prima ad andarsene. E mi venne voglia di ridere e dirle quanto le volevo bene, perché, nonostante tutto, sapevo che lei non avrebbe mai permesso che affrontassi tutto questo da sola.
Girai le chiavi nel cruscotto. La macchina non diede segni di vita. Riprovai.
“Lo sapevo”, piagnucolò Silvana. “Lo sapevo, lo sapevo, lo sapevo.”
“E piantala”, rise Sabina.
“E’ notte, siamo in mezzo ad una bufera di neve, Dio solo sa dove e, senza contare che probabilmente sono seduta accanto a un fantasma, la macchina non parte. Come vogliamo definire questa situazione?”
“Sii un po’ più positiva”, le suggerii. “E smettila di agitarti.”
“Io non mi agito. Io sono sull’orlo di un attacco di panico.”
“Cosa vuoi che succeda?”
“Beh, Sabina potrebbe decidere di partorire.”
“Adesso?” chiese Sabina, perplessa.
“Perché no?”
“Mancano due mesi.”
“Lo stress potrebbe esserti fatale”.
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Sapevo esattamente cosa le avrebbe risposto Sabina, per cui mi affrettai a tapparle la bocca con una mano. “Niente panico”, dissi. “Vedrete che tra qualche minuto ripartirà.”
Naturalmente non ripartì. E dopo l’ennesimo, disperato tentativo, dovetti arrendermi anch’io all’evidenza. Come aveva detto Silvana eravamo Dio solo sa dove, in mezzo ad una bufera di neve.
“Okay, qualche idea?” chiesi, girandomi verso di loro.
“Mi sa che ci tocca una passeggiata”, disse Sabina.
A Silvana non rimase che infilarsi il cappotto. “Una morte per assideramento è esattamente ciò che avevo preventivato per questo fine settimana”, disse, lottando con la sciarpa. “Troveranno i nostri corpi dilaniati dai lupi, sempre che a trovarci prima non sia un maniaco omicida, perché a questo punto non mi sento davvero di escludere nessuna eventualità e, se dovesse accadere, di noi non rimarrà niente di identificabile.”
“Ti riconosceranno dalla forfora”, la tranquillizzò Sabina.
“Vai a cagare”.
“Trovami un albergo e hai la mia parola che sarà la prima cosa che faccio”.
Silvana la guardò in modo strano. “Perché?”
“Perché cosa?”
“Credevo soffrissi di stitichezza.”
“E allora?”
“Allora c’è qualcosa che non torna”.
Sabina la fissò sinceramente perplessa.
“Come ti senti?”
“Come diavolo vuoi che mi senta?” chiese senza capire.
“Hai la pancia dura?”
“Devo solo andare in bagno.”
“Perché se hai la pancia dura, allora potrebbero essere contrazioni. E se hai le contrazioni…”
“C-a-c-c-a”, sillabò Sabina al limite dell’esasperazione. “Mi scappa semplicemente la cacca. Va bene?”
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“Sicura?”
“Ti sembro confusa a riguardo?”
“D’accordo”, si arrese Silvana per nulla convinta. “Ma non c’è bisogno di alzare la voce. Fa male al bambino.”
A quel punto pensai che Sabina si sarebbe davvero messa a urlare, o perlomeno era quello che avrei fatto io perché, a volte, Silvana sapeva scatenare i miei peggiori istinti. “Dobbiamo dare un nome al tuo bambino”, proposi nel tentativo quasi disperato di cambiare argomento.
“Miro”, annunciò Sabina solennemente.
“Miro?” ripetemmo io e Silvana, augurandoci di aver capito male.
“Colui che porta la pace”, ci spiegò con orgoglio.
“Scusa, ma in che lingua?” volle sapere Silvana.
“Sloveno”.
“Ah, mi pareva”.
“Ora, dimmi che non ti piace”, la provocò Sabina, sul piede di guerra.
“Non mi piace.”
Ecco. Eravamo punto e a capo. Perché diavolo non avevo tenuto la bocca chiusa? Sabina e Silvana trascorsero i successivi quaranta minuti a discutere sul nome del bambino mentre costeggiavamo a piedi la strada, facendoci luce con una ridicola pila a forma di scimmia che urlava a intervalli regolari di trenta secondi, ma considerata la situazione, era meglio di niente.
“Gran bell’oggetto”, commentò Sabina e io mi limitai a sorriderle perché era solo questione di qualche mese prima che lei scendesse a compromessi con i suoi intoccabili principi educativi, acquistando qualunque cosa avesse il potere di zittire, anche solo cinque minuti, il pianto ininterrotto di una creatura la cui potenza polmonare avrebbe fatto impallidire Pavarotti.
“Hai una vaga idea di dove stiamo andando, o stai semplicemente tirando a indovinare?” mi chiese Silvana col fiato corto.
25
“Lassù”, risposi, indicando la cima di una collina.
Lei strizzò gli occhi. “Punta la scimmia. Non vedo.”
“C’è una casa. Accanto alla chiesa”.
“Non vedo nessuna chiesa.”
“Fidati”.
“Di una che affetta il pollo come se stesse sezionando un cadavere? Neanche morta.”
“Cosa c’è che non va nel modo in cui taglio il pollo?”
“Il pollo?” ripeté, guardandomi dritto negli occhi. “Hai snaturato le carote, infiocchettato i fagiolini e creato una scultura cubista con l’ananas. “Sorrise e continuò imperterrita l’elenco delle mie nevrosi. “Pieghi gli angoli della carta igienica, disponi i barattoli per ordine di grandezza e formato, le cravatte per colore e i tuoi armadi sembrano la pubblicità di un negozio di abbigliamento. A casa mia questo si chiama avere un problema.”
“Forse mi piace semplicemente essere ordinata”, cercai di difendermi, ma lei era già pronta inchiodarmi con una prova inconfutabile.
“Stiri le mutande.”
“E allora?
“Non l’ha mai fatto neanche mia madre”, sentenziò e con questo mi mise definitivamente a tacere.
Essere paragonata a sua madre non era esattamente un complimento. Per oltre trent’anni, le manie della signora Rocchetti erano state oggetto delle nostre più spietate risate e per quanto, in fondo, le fossimo affezionate, avevamo ben chiaro, già allora, che lei rappresentava tutto ciò che noi non saremmo mai diventate. Eravamo ragazze brillanti, emancipate e assolutamente convinte di aver le carte in regola per conquistare il mondo. Bigodini e aspirapolvere non rientravano nei nostri meravigliosi piani per il futuro.
Nonostante avessimo un’idea ben precisa di come si svolgesse la vita di Silvana, casa Rocchetti rimase, per anni, un mistero.
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La porta non si spalancava mai abbastanza perché noi potessimo guardare dentro e col senno del poi, forse avremmo dovuto accessoriare il pianerottolo di un paio di sedie da campeggio, perché Sabina e io stazionammo lì, praticamente ogni santo pomeriggio per più di vent’anni, nell’attesa che Silvana fosse pronta per uscire. Credo di aver trascorso più tempo su quel pianerottolo che a casa mia. E credo di non aver mai visto la signora Rocchetti senza uno sgrassatore in mano, pronta a disinfettare qualunque cosa le capitasse a tiro. Mi ero davvero ridotta così?
Naa. Impossibile.
Però le mutande le stiravo davvero. Forse avrei dovuto rivedere un attimo il mio concetto di ordine.
Era quasi l’una di notte quando arrivammo in cima alla collina.
Avevamo i piedi ghiacciati, i capelli incollati alla testa e la mia unica consolazione era che se anche avessimo incrociato il maniaco omicida di Silvana, dubito che si sarebbe preso il disturbo di degnarci della sua attenzione.
Sapete, non era proprio così che avevo immaginato quel fine settimana. Tanto per cominciare avrebbe dovuto essere un viaggio nel silenzio. Due giorni sola con me stessa e con quegli spiriti che, per troppo tempo, mi ero ostinata a tenere in vita. E le neve, era l’epilogo perfetto a qualcosa che era iniziato molto tempo prima, se non mi fossi travata a dover disquisire su argomenti molto più terreni. Perché la stitichezza di Sabina e la forfora di Silvana non rientravano propriamente nella mia definizione di cammino spirituale.
Ma forse era destino che andasse così. Se la loro presenza mi privò della solitudine e del silenzio, mi fu concesso, al loro posto, qualcosa di incredibilmente più prezioso. Il caos.
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Era forse questo che, più di ogni altra cosa, mi era mancato nei miei sedici anni di vita a Torino. Forse aveva ragione Sabina. Forse mi stavo conformando troppo allo stile di vita un po’ ammuffito dei piemontesi. Perché, vedete, i piemontesi ridono poco. Con questo non voglio dire che non lo fanno, ma che hanno la straordinaria capacità di far sentirti sentire un idiota quando lo fai tu. Almeno fino a quando non hanno la certezza che tu non sia una specie di extraterrestre. E, con un albero genealogico che spaziava dalla Germania all’Africa, io rappresentavo, senza dubbio, un potenziale marziano. Ogni mio comportamento leggermente al di fuori dalle regole veniva commentato con un imbarazzato: “Sua madre è tedesca,” come se questo bastasse a giustificare ogni cosa.
Avevo superato la loro diffidenza già da qualche tempo e, anche se di tanto in tanto riuscivo ancora a scioccarli con una spontaneità che faceva a pugni con la loro etichetta, sapevo che l’affetto che provavano nei miei confronti era incrollabile. Insomma, bisognava solo avere quei cinque o sei anni di pazienza.
“Non bussate a quella porta,” recitò Silvana con occhi spiritati e voce cavernosa quando ci trovammo di fronte all’angusto ingresso di quello che una volta doveva essere stato un priorato.
A dire il vero pensavo di sfondarla,” ribatté Sabina, premendo il dito sul vecchio campanello d’ottone.
Aspettammo.
“E se fosse la casa di un pervertito?” buttò lì Silvana.
Sabina la squadrò dalla testa ai piedi. “Ma ti vedi?”
Le sferrai un calcio nella caviglia. La sola cosa di cui non avevamo bisogno era spaventare il proprietario di quella casa, chiunque fosse, perché casa significava letto e io ero così stanca che avrei accettato di dormire anche nella cuccia del cane.
Finalmente la porta di socchiuse e il mio primo pensiero fu che lassù qualcuno ci voleva davvero bene.
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Silvana invece spalancò gli occhi come se si fosse trovata di fronte la versione nostrana di Dracula e dopo un attimo di totale sbigottimento si girò verso di me, articolando le labbra in un disperato: “Sono suore!”
“Lo vedo”, bisbigliai tra i denti.
“Io non ci dormo con le suore!”
“Certo che ci dormi”, la minacciai.
“Sono comunista”, improvvisò con voce stridula, non sapendo più a cosa appigliarsi e se o fosse stato per il freddo, il sonno e la mia stoica decisione di mantenere sulle labbra un sorriso che implorava ospitalità, credo che avrei riso fino alle lacrime.
“Nessuno è perfetto, cara”, disse la suora e, con un ampio sorriso chiaramente destinato a Silvana, ci fece segno di entrare. Io la adorai all’istante.
Fu così che quella notte ci si spalancarono le porte di un vecchio, bellissimo convento. Naturalmente mi guardai bene dal dire a Silvana che forse anche questo era un segno. Dubito che a quel punto avrebbe accettato da me una qualsiasi cosa che non fosse un biglietto del treno per tornare a casa. Si trovò invece costretta a dividere con me e Sabina una spoglia cella con tre brande, un crocifisso e un minuscolo lavandino.
“Bel posto”, commentò quando fummo sole.
“E’ un convento,” le ricordai con un sorriso.
“Mancano i materassi.”
“Sono brande, Silvana.”
Lei provò a sdraiarcisi sopra. “Domani mattina assomiglierò al Gobbo di Notre Dame.”
“Non sei uno spettacolo neppure adesso”, le fece notare Sabina, rovistando nella sua borsa alla ricerca del pigiama e, all’improvviso, cominciò a ridere. “Sono comunista”, scimmiottò, incapace di trattenersi. “Dio, non ti è venuto proprio in mente nient’altro?”
Silvana nascose un sorriso. “No.”
“Quella suora mi piace, Ha le palle”.
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“Se è per questo, ha anche i baffi”, precisò Silvana, poi ci puntò addosso uno sguardo che non ammetteva replica. “Una notte. Otto ore, non un minuto di più. Questo posto mi mette a disagio.”
Sabina si distese sulla branda. “Filippo sembra gradire”, ci informò.
Silvana e io ci girammo a guardarla.
“Che fine ha fatto Miro?” chiesi.
“A Fabrizio non piace.”
Okay. Era un maschio. Poi c’erano stati i sigari e la proposta di matrimonio. Adesso il nome. Cominciavo ad avere un’idea un po’ più precisa del perché Sabina avesse attraversato mezza Italia con la sua pancia. Ma, più di ogni altra cosa, avevo la dolorosa sensazione che un bel sonno ristoratore non fosse nei suoi programmi di quella notte.
Perché Sabina possedeva un talento tutto particolare nell’analizzare, fin nel più piccolo dettaglio, le proprie emozioni. E qualcosa mi diceva che aveva tutta l’intenzione di farlo proprio ora.
“Giacomo potrebbe significare una svolta importante nel mio modo di percepire l’universo maschile”, cominciò, accarezzandosi la pancia. “Potrebbe perfino modificare il mio Essere puramente femminile. Insomma, crescerò un bambino destinato a diventare un uomo. Gli trasmetterò il mio sapere, le mie emozioni, gli insegnerò a costruire, progettare e desiderare valori quali la libertà e l’amore e un giorno, quando sarà grande, lo guarderò e mi dirò: questo è Ivan. Questo è l’uomo che ho avuto l’onore di crescere.”
E poi ero io ad avere un problema di personalità multipla! Mi venne voglia di dirle che prima di ogni altra cosa si sarebbe trovata a dovergli insegnare a usare il vasino, ma pensai che se lei era lì, in uno sperduto convento del canavesano, a dividere sogni e paure con noi, invece che con la sua famiglia, allora dovevamo ascoltata, semplicemente perché forse nessun altro lo aveva ancora fatto.
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Non so per quante ore, quella notte, Sabina andò avanti a parlare. So che mi sforzai davvero di ascoltarla mentre le sue parole si confondevano col respiro sempre più pesante di Silvana, ma anni di notti in bianco mi avevano addestrato a un sonno semicosciente, in cui potevo alzarmi a scaldare un biberon di latte, rispondere alle proteste di mio marito e cantare una ninna nanna senza per questo mai svegliarmi davvero. Si chiama sopravvivenza. E io avevo imparato a farne un’arte. Probabilmente riuscii anche a intrattenere con Sabina una qualche forma di conversazione, perché il giorno dopo lei sembrò immensamente più sollevata e felice, ma se dovessi dirvi tutto ciò che lei, quella notte, mi raccontò, avrei dei grossi problemi. Ricordo, però, che prima di addormentarmi, provai una strana sensazione alla base dello stomaco, come se sentissi che il tempo a mia disposizione stava per scadere. E, per un attimo, invidiai Sabina. Invidiai quella felicità pura, totale per una vita che doveva ancora nascere e che avrebbe cambiato ogni cosa. Credo fosse questo, più di ogni altra cosa a spaventarla. Il resto era semplicemente Sabina in uno dei suoi momenti di presa di coscienza esistenziale.
Il mattino dopo dovetti dare ragione a Silvana: la mia schiena aveva più di una cosa in comune con quella del Gobbo di Notre Dame.
“Filiamocela”, fu la sola cosa che mi disse, infilandosi tre paia di calze uno sopra l’altro.
“Poteva andare peggio”, mentii, chiedendomi se il freddo patito quella notte poteva aver creato dei danni permanenti alla mia circolazione periferica. Seguii il suo esempio e indossai praticamente tutto ciò che mi ero portata dietro.
“Ho dormito in una cella, al freddo, ascoltando rosari tutta la notte. Onestamente, mi riesce un tantino difficile immaginare di peggio”.
Fu, credo, per il modo in cui lo disse. Perché quello che fino ad allora era stato un gioco, improvvisamente, suonava come un’accusa.
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“Credi che sia sbagliato, vero?” chiesi, appoggiando lentamente lo zaino per terra.
“Vuoi la cruda verità o la versione diplomatica?”
“Prova con la verità”, la sfidai.
“Smettila di rincorrere i morti. Smettila di cercare a tutti i costi un senso a questa cosa, perché non ce l’ha. Si è suicidato, Claudia. Voleva morire e qualunque sia stata la ragione, non ti riguarda. Era il suo dolore, non il tuo. E, forse, non gliene fregava più niente di nessuno. Ci hai mai pensato? Forse non era un puro, come pensavi tu, perché in quel caso non avrebbe mai inflitto un dolore così terribile alle persone che amava. Perché tu, tu hai tuo marito e i tuoi bambini, hai una vita che esisteva prima di conoscerlo e alla fine, volente o nolente, dovrai lasciarlo andare, ma i suoi figli dovranno convivere con questo maledetto suicidio per il resto della loro vita e non ci sarà giorno in cui non si chiederanno perché è successo, perché un padre che doveva amarli e proteggerli ha scelto, invece, di privarli del loro futuro. Perché loro sono e saranno sempre dei sopravvissuti e Dio solo sa quale sarà il prezzo che dovranno pagare per questo.”
“Vacci piano”, disse Sabina con una durezza che non le avevo mai sentito usare.
“E’ la verità”.
“No. E’ la tua verità. E non è la stessa cosa.”
“Ma potrei aver ragione”.
“No.“ Scosse la testa. “Lo stai giudicando. E chi giudica, Silvana, non ha mai ragione.”
“Non fare la filosofa con me.”
“Adesso basta”, mi intromisi. “Tutte e due.” Le guardai entrambe, consapevole, forse per la prima volta, di quanto doveva essere stato difficile per loro essermi amiche in quell’ultimo anno. Perché, alla fine, i miei fantasmi avevano toccato anche loro. “Ha ragione Silvana”, dissi dopo un lungo silenzio. “Era il suo dolore, non il mio. E quel giorno qualcosa è andato maledettamente storto.
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Ma se io non provo a capire, se non gli concedo il beneficio del dubbio, allora tutto ciò che mi ha insegnato non vale più niente.” Guardai Silvana. “Sarebbe come ammettere che erano solo parole. Lo capisci?”
Lei scosse desolata la testa. “Non volevo mettere in discussione…”
“L’ho fatto io. Tutto quello che hai detto, io l’ho pensato e sono stata molto più dura di te. Ero ferita e spaventata e non facevo che ripetermi che era bastato quel gesto a cancellare tutto, come se il resto della sua vita avesse improvvisamente perso ogni valore. Ma non sono mai riuscita a condannarlo.
Credo che lui sapesse cosa stava accadendo. E credo che abbia lottato per impedirlo. Solo che, a volte, lottare, non basta. Era un uomo. Solo un uomo. E forse, alla fine, ha semplicemente vinto la disperazione.”
Nella stanza calò il silenzio.
Mi girai verso la finestra. Aveva smesso nevicare. Fu allora che vidi ciò che la notte prima non avevo potuto vedere: un chiostro.
Non saprò mai con esattezza cosa o come accadde, ma la visione di quel chiostro sotto la neve, la sua totale immobilità, sembrò dare un senso a tutto ciò che, fino ad allora, non lo aveva avuto.
Avevo pregato in un chiostro perché mio padre non morisse. E avevo pianto, in un altro chiostro, la morte del dott. L.
Forse era stato davvero uno spirito a condurmi fin lì.
Forse, nulla accade mai veramente per caso. E, per la prima volta in vita mia, provai la sconcertante sensazione che tutto fosse già stato scritto.
La morte di mio padre. Il suicidio del dott. L.
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Entrambi, in modo diverso, avevano capito quando era arrivata la fine. E voglio pensare che il loro spirito sia davvero esistito, perché ciò che accadde in quella strana mattina d’inverno segnò la fine di un dolore di cui, forse, loro si erano spogliati molto tempo prima.
Mi girai verso Silvana e la guardai a lungo, prima di avere la certezza di riuscire a parlare senza piangere. “Non è sbagliato,” le dissi quasi sottovoce.
“No, non lo è.” Mi sorrise.
“Oddio”, gemette Sabina, soffiandosi il naso. Cominciò a rovistare nella sua borsa, sparpagliandone l’intero contenuto sulla branda finché non trovò quello che cercava.
“Cosa stai facendo?” Silvana fissò allibita il cellulare.
“Chiamo la mia analista.”
“Adesso?”
Sabina sollevò incredula lo sguardo . “Hai una vaga idea di quello che è successo qui, adesso? Noi tre abbiamo fatto rivivere lo spirito del dott. L. Gli abbiamo concesso di tornare indietro e, per un istante, ciascuna di noi ha desiderato di poter riscrivere gli ultimi giorni della sua vita. E non dirmi che non è vero, perché so che lo hai desiderato anche tu.”. Si morse, nervosamente, un angolo del labbro inferiore. “Io non so come sentirmi rispetto a tutto questo, ma so che ho pianto per un uomo che neppure conoscevo.”
“Quella è colpa degli ormoni”, disse Silvana, senza battere ciglio, e io cominciai a ridere, chiedendomi come fosse possibile farlo dopo tutto ciò che era stato detto.
“Sai, a volte mi chiedo come mai tu e io siamo diventate amiche”, disse Sabina a Silvana.
“Perché senza di me tu ti saresti abbarbicata su qualche eremo indiano a cercare di fondere il tuo insignificante Essere mortale con il sapere universale.” Le sorrise. “In altre parole sono la tua zavorra spirituale.”
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Sabina la fissò allibita. “Ogni tanto ti rendi conto di quello che dici?”
Silvana alzò le spalle. “Credo di sì.” Afferrò il suo borsone e si diresse verso la porta. “Puoi telefonare alla tua analista più tardi. Adesso è meglio andare a fare colazione. Giona avrà fame.”
“Samuele,” la corresse Sabina.
“Giulio suona meglio.”
Quel giorno iniziò così, come se quel caos improvviso avesse aperto una minuscola crepa tra la mia storia e quella del dott. L. Non ebbi, allora, percezione di ciò che era realmente accaduto. Ma so che dopo, ogni cosa prese semplicemente a scivolare nella direzione che era giusto che prendesse. Avevo davvero desiderato trovare la sua tomba. Eppure mai, per un solo istante, avevo colto le implicazioni di ciò che allora mi sembrava un semplice gesto d’amore. Era stato il mio maestro. Ma ero stata io a sceglierlo. Non lui. E lo avevo fatto perché in lui avevo ritrovato la stessa pacata saggezza di mio padre.
Non avrò mai la certezza di ciò che sto per dire, ma credo che lui lo sapesse. Perché pochi giorni prima di morire mi disse qualcosa, una frase innocua, buttata lì, che solo molto tempo dopo assunse un significato molto più profondo di quello che allora io gli attribuii.
Non sono mai riuscita a ricordare esattamente le parole che usò, ma ricordo che mi fecero sorridere.
Fu, invece, il suo modo di congedarsi. Discretamente. Serenamente. Perché aveva già deciso. E io, io non lo avevo capito. Come avrei potuto?
Con gli anni, fu il ricordo di quella serenità a darmi la certezza che lui avesse, alla fine, trovato la pace. Ed è così che voglio ricordarlo. Perché è la sola cosa che davvero importa.
“Devo andare”, dissi, quando raggiungemmo il refettorio. Consegnai a Sabina le chiavi della macchina e il numero di telefono del meccanico.
35

“Ci molli qua?” mi chiese, meno perplessa di quanto volesse dare a vedere.
“Se non vi dispiace, sì.”
“Non so cosa dire.”
“Prova con un ‘tu sei completamente fuori di testa’”, le suggerì Silvana, poi si girò verso di me, la tazza di caffelatte ancora in mano e, per un lunghissimo momento, mi scrutò in silenzio. Alla fine, sorrise, perché forse lei, più di chiunque altro, aveva sempre sentito che sarebbe finita così. “Di quanto tempo hai bisogno?”
“Un paio di ore”.
Lei finse di pensarci sopra, poi tornò a concentrarsi sulla colazione. “Basta che ti porti dietro il fantasma.”
Io risi. “Cosa farete?”
“Un po’ di uncinetto”, rispose, imperturbabile. “Potrei proporre una partita a poker con suor come si chiama, ma ho qualche dubbio che rientri nello spirito meditativo di un convento.”
“Suor Maria Cecilia”, disse una voce alle sue spalle. “E lei, mia cara, pensa troppe cose. L’umiltà è la sola e unica strada verso la vera conoscenza.” La suora le regalò uno dei suoi micidiali sorrisi e si sedette a tavola con noi. “Se non sono indiscreta, posso chiedervi cosa vi ha portato fin qui?”
“Trasporti funebri”, disse Silvana, senza scomporsi.
“Avete un’agenzia di pompe funebri?” Per la prima volta, Suor Cecilia diede segno di esser stata colta di sorpresa.
“Per il momento ci limitiamo a rintracciare e traslocare il caro estinto”, rispose, prendendoci gusto e io feci tutto ciò che umanamente potevo per non scoppiare a ridere. Raccolsi le mie cose e le salutai con un semplice gesto della mano.
Fu così che le lasciai, senza sapere che al mio ritorno, loro non ci sarebbero più state. Perché quel giorno le cose accaddero, semplicemente, com’era giusto che accadessero.
36
Silvana tornò a casa e Sabina proseguì, sola, per Trieste, decisa a concedere una seconda chance all’uomo che non avrebbe mai sposato ma che avrebbe amato per tutta la vita.
Non mi chiesero mai cosa feci quel giorno. Credo che aspettassero che fossi io a dirglielo, ma in tanti anni non sono mai riuscita a trovare il momento e le parole giuste per farlo. Forse, perché dopo tanto trambusto, quella storia meritava di finire in silenzio.
Non trovai la tomba del dott. L. Non la cercai neanche. Camminai sotto il cielo plumbeo di un quello strano inverno, fino all’ingresso di un piccolo cimitero e lì mi fermai, consapevole che il mio viaggio era finalmente giunto a termine.
E fu lì, sotto un nevischio che profumava d’inverno, che scrissi la fine di una storia che nessuno mi avrebbe mai raccontato.
 
                         Al dott. L.

13 commenti:

  1. bello bello bellissimo!!!

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  2. Ho riso come una matta :-)))))))))

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  3. Spero che arrivi il seguito!!! Mi sono talmente affezionata alle tue amiche che giuro, mi sembra di conoscerle da sempre.
    Dimmi che ci sarà un'altro racconto!!!
    Giannina

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  4. letto tutto d'un fiato. Bellissima!

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  5. Dovresti davvero continuare. Sabina e Silvana sono FANTASTICHE!!! Ho riso tantissimo

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  6. io me lo sono letto tutto d'un fiato! Vorrei tanto il seguito, per favoreeeee

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  7. Credo di aver capito chi è il dotto L. Era il pedriatra delle mie bambine tantissimi anni fa!! Omiodio, mentre leggevo avevo le lacrime che mi colavano e un nodo alla gola. Che bei ricordi. Era un uomo meraviglioso. E tu gli hai regalato questa storia. Sei una persona davvero speciale
    Patty

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  8. Ti prego, voglio anche io il seguito!!

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  9. Ma quanto sei brava????

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