Senza rumore

                                                                        


     

Questa storia ha inizio il giorno in cui morì mio padre.
Fu il primo grande dolore della mia vita.
Per quanto fossi preparata alla sua scomparsa, non immaginavo il senso di vuoto e lo smarrimento che avrebbero accompagnato le settimane a venire.
Quel giorno nevicava e fu la neve ad attutire lo choc. Poi vennero le lacrime e l’improvvisa consapevolezza che mio papà non esisteva più, che non avrei mai più sentito la sua voce, che qualunque cosa mi sarebbe accaduta in futuro lui non sarebbe stato lì per dirmi: “Non ti preoccupare, aggiusteremo tutto”.
Mio papà era morto.
Niente, dopo, fu facile.
Ma per il dolore c’era tempo. Le convenzioni sociali ebbero la priorità.
Ora, può darsi che la mia famiglia sia un tantino al di fuori degli schemi e che non sempre abbia agito così come ci si aspetta da una buona famiglia cattolica e borghese. La verità è che siamo per metà protestanti e che prima di allora non avevamo mai seppellito nessuno. Pensavamo che il mondo intero si sarebbe tenuto rispettosamente un passo indietro, accompagnandoci in silenzio attraverso quei giorni tanto difficili.
Ci sbagliavamo.
Assistemmo increduli a una fastidiosa quanto reverenziale processione di dolenti, sorprendentemente ferrata in materia di lutto. Non che qualcuno di loro si fosse disturbato ad alleviarci da qualche sciocca incombenza quotidiana. Le loro mascelle erano troppo impegnate a masticare cibo da noi preparato e snocciolare con una meticolosità quasi imbarazzante listini prezzi di bare, fiori, marmisti e necrologi.
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Da dove venisse tanta straordinaria competenza mi turba tuttora.
L’elenco delle cose che era “bene” fare avrebbe fatto impallidire un necrofilo.
Noi ovviamente lo ignorammo. La sola cosa che ci sembrava davvero importante era rispettare le volontà di papà e impedire che il mondo ci crollasse addosso prima del funerale.
Fu criticata la bara, la mancanza di corteo funebre, la semplicità della funzione e la nostra imperdonabile mancanza nel non aver provveduto ad acquistare, durante gli ultimi mesi di vita di papà, una tomba per lui.
Naturalmente avevamo commesso molti altri errori formali, eppure nessuno sembrava davvero interessato all’enormità di quello che ci era successo.
Nel nostro piccolo avevamo dato scandalo e io sapevo che ovunque fosse mio papà, avrebbe trovato la situazione semplicemente esilarante.
Il primo mese fu surreale.
Provai sensazioni fino ad allora sconosciute e il dolore inghiottì quasi ogni istante delle mie giornate. La morte di mio padre era diventata reale e io non mi ero mai sentita tanto sola in vita mia.
Poi accadde qualcosa.
Mia sorella trovò un piccolo cimitero di campagna in cui seppellire le ceneri di papà, strappandole all’anonimo ossario dove riposano coloro che non provvedono, a tempo debito, all’acquisto di una tomba. Con impeccabile efficienza la macchina delle pompe funebri, delle pratiche burocratiche e dei permessi comunali si rimise in moto e cinque giorni dopo avevamo in mano i documenti necessari per spostare mio padre.
Fu allora che la sua morte smise di far tanto male.
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Ciò che accadde dopo fu un concatenarsi apparentemente innocuo di singoli eventi che ancora oggi non mi spiego, ma che lenirono le mie ferite in un modo che il resto del mondo avrebbe probabilmente giudicato dissacrante. Per me fu semplicemente spalancare le porte alla vita dopo diciotto lunghissimi mesi vissuti accanto alla morte.
Ci fu un disguido tra i due cimiteri e mia madre si ritrovò tra le mani l’urna di papà, un giorno prima del previsto. Fu la prima volta che sorrisi davvero dopo tanto, tanto tempo.
Papà sarebbe tornato a casa. Solo per una notte, d’accordo, ma la sensazione che provai fu dolce come il miele. Sorrisi tutto il giorno, pensando che in qualche strano modo, tornando a casa, papà aveva fregato la morte.
Fu durante quelle ventiquattro ore che mia madre commise il primo reato della sua vita e lo fece con quella naturalezza e quel senso pratico di cui solo lei è capace.
Non portò papà in casa. Faceva troppo male. Lo lasciò nel baule della macchina, avvolto in una coperta, e andò a fare la spesa.
Ancora oggi mi chiedo cosa sarebbe accaduto se la polizia l’avesse fermata per un controllo o se qualcuno le avesse rubato la macchina.  E rido, perché se mai avessi rivelato a qualcuno ciò che mia madre fece quel giorno, probabilmente lo avrei scioccato a morte.
Io, al contrario, ne colsi tutta la dolcezza. Perché in un modo che forse non è possibile spiegare, anche la morte racchiude in sé attimi di profonda dolcezza, qualcosa che va al di là del dolore e della disperazione, qualcosa di così minuscolo e impercettibile che, solo a volte, ci è permesso capirne la vera essenza.
Ho dato alla luce due figli e ho visto morire mio padre.
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Sono stati in assoluto i momenti più importanti della mia vita, momenti che porterò impressi nella memoria della carne, la cui intensità ha sovvertito le certezze su cui fino ad allora avevo contato per definire me stessa e il mondo che mi circondava e in entrambi questi momenti, legati da forme d’amore così diverse, ho percepito la stessa infinita sensazione di pace.
Fu la notte che mio padre trascorse parcheggiato sotto casa a far germogliare nella mia mente il piano. Era assolutamente folle, lo sapevo, ma per la prima volta fui davvero consapevole di una cosa: con la morte di mio papà io mi ero persa. E nessuno, davvero nessuno lo aveva capito. Forse sentivo di dover proteggere le persone che amavo dall’immensità del mio dolore o forse, più semplicemente, le stavo tagliando fuori da qualcosa che volevo appartenesse solo a me.
Sta di fatto che durante quella notte, l’idea che si era annidata in qualche recesso della mia mente crebbe con la stessa lenta ma inesorabile forza della gramigna.
All’alba sapevo cosa dovevo fare. E c’erano solo due persone al mondo con cui poter condividere la mia follia. Mandai loro un semplice messaggio. “Ho bisogno di andar via. Con voi. Oggi.  Settantadue ore. Niente domande. Pago io.”
Non avevo mai chiesto loro aiuto prima di allora.
Silvana fu la prima a rispondere. “Sistemo marito e bimbo. Arrivo.”
Poi ricevetti il messaggio di Sabina: “Prenotato corso intensivo tantra con Fabrizio. Deve essere proprio oggi?”
Lo so, sembra il messaggio di una squilibrata. Ma è solo Sabina e anche se il concetto di equilibrio mentale fa un tantino a pugni con la sua storia personale, devo ammettere che in lei tutto trova sempre e inspiegabilmente un senso.
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Così le risposi. “Oggi”, sapendo perfettamente che me l’avrebbe fatta pagare, ma trent’anni di profonda e intensa amicizia dovevano pur significare qualcosa, no?
“Tantra”, ripeté Silvana non appena salimmo in macchina. “Che roba è?”
“Sesso”, spiegai.
“Sesso?” Lo disse come se non avesse veramente capito.
Sabina ci guardò malissimo. “Sesso è un modo volgare di definire la profonda spiritualità che questa pratica orientale dona all’unione di una coppia”.
Ora, Sabina era in grado di cogliere il lato spirituale anche in un carciofo, per cui decidemmo, molto saggiamente, di soprassedere.
La sua personale ricerca del mistico aveva radici molto lontane. Nel corso degli anni l’aveva portata a vivere esperienze e frequentare corsi di cui il resto del mondo ignorava l’esistenza. Aveva trascorso diverse estati nei Kibbutz, si era chiusa in qualche sperduto convento di clausura, aveva partecipato a seminari buddisti e zappato con gioia i campi di qualche guru inglese, aveva recitato in teatro con le donne del centro di igiene mentale di Trieste e disceso i fiumi della Croazia con il kayak senza neppure una foglia di fico appiccicata sul corpo, poi, per un breve periodo si era votata alla castità, dopodiché aveva scoperto il fascino dell’autocoscienza e dell’espressione corporea e che ci crediate o no, da tutte queste esperienze aveva sempre saputo trarre il meglio. Certo il tantra era, come dire, una pratica un tantino particolare, ma conoscevamo abbastanza Sabina da non azzardare commenti.
Così ebbe inizio il nostro viaggio. Era strano, ci conoscevamo da una vita, eppure mai prima di allora eravamo partite per una vacanza insieme.
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Le nostre strade avevano preso direzioni diverse molto tempo prima. Io avevo lasciato Milano giovanissima per sposarmi, Sabina era partita poco dopo per andare a studiare dall’altra parte d’Italia, eppure le nostre vite erano legate da quegli anni fatati dell’infanzia e dell’adolescenza che nulla e nessuno avrebbe mai potuto scalfire. A me bastava sapere che loro c’erano e immagino che lo stesso fosse per loro. Poi, ovviamente, spendevamo cifre indecenti per telefonarci e il mio postino si era abituato a recapitarmi lettere che per peso e dimensioni rasentavano l’aspetto di pacchi bomba. Ma con gli anni, le probabilità di trovarci tutte e tre contemporaneamente a Milano era quasi un avvenimento. Accadde quando morì mio padre, ma fu un caso e oggi so che fu la loro presenza a salvarmi.

“Hai una faccia che fa schifo”, mi disse Sabina, scavando nel sacchetto delle caramelle. Certo, ci sarebbero stati almeno altri cento modi per esprimere il concetto, ma io sapevo che quello era il suo per dirmi che era preoccupata per me. E per questo le fui grata. Avevo collezionato così tante frasi di circostanza nell’ultimo mese che un po’ di sana e brutale schiettezza poteva solo farmi bene. Mi guardai nello specchietto. “Sono un po’ sciupata”, ammisi.
“Fai schifo”, ribadì Silvana dal sedile posteriore.
Ora, Silvana non è una squilibrata e, grazie al cielo, il suo concetto di spiritualità non si estende alle verdure,   ma è un vigile urbano. Per dirla tutta, ogni singola cellula del suo corpo è geneticamente programmata per portare l’uniforme da prima ancora che sua madre la iscrivesse alle elementari.
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Il suo modo di concepire l’esistenza su questa terra è, in apparenza, così ordinatamente delineato che solo quel sant’uomo di suo marito può pensare di sopportarla ventiquattro ore al giorno, per il resto della sua vita. Ora, non so in quale misura l’appartenenza a un corpo armato abbia influito sulla sua evoluzione esistenziale, ma so che le sue folli trasgressioni giovanili sono evaporate il giorno in cui ha adottato l’uso delle pattine in casa. Esattamente come faceva sua madre. Grazie a Dio, la somiglianza, almeno per il momento, finisce lì anche perché Silvana è in assoluto la persona più divertente che io conosca. Se mi guardo indietro credo che nessuno sia mai riuscito a farmi ridere tanto quanto lei, e non solo per la sua innata, micidiale inclinazione all’umorismo, ma per quella risata a metà tra una crisi asmatica e il decollo di un tornado, così tremendamente imbarazzante che descriverla è, in tutta onestà, impossibile anche se spiega il perché io abbia smesso, anni fa, di andare al cinema con lei.
Adoro Silvana, ma la verità è che non ho mai capito cosa la muova davvero. In oltre trent’anni di amicizia, risate, confidenze e psicodrammi dalle dimensioni apocalittiche, a metterci a nudo eravamo state sempre e solo io e Sabina. Ciò che invece Silvana si portava dentro, quel suo senso del pudore così esasperante da rasentare il limite di una psicosi, rimaneva per entrambe un mistero. Ma avevo imparato da tempo che certe porte dell’animo umano devono rimanere chiuse.
Trascorremmo le prime ore di viaggio chiacchierando del più e del meno. Né Sabina né Silvana mi chiesero dove stessimo andando, anche se a mano a mano che ci avvicinavamo al confine con la Francia vedevo un certo sconcerto crescere sui loro volti.
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Immaginavo però che avessero un’idea ben precisa, anche se sbagliata, del perché. Uno dei grandi dolori legati alla morte di mio padre era stata l’inspiegabile, totale assenza dell’uomo che amavo più della mia stessa vita. Per un anno e mezzo avevo guardato mio padre morire e, per quante belle storie ci fossimo raccontati nel tentativo di proteggerci a vicenda dallo spettro della morte, sapevo che papà era pienamente cosciente di quello che gli stava accadendo. E il suo dolore come la sua paura, sempre celati dietro un sorriso, mi avevano consumato dentro.
Se mio marito avesse o meno intuito l’enormità di ciò che mi stava accadendo, non lo saprò mai. Quello che invece so è che l’uomo con cui avevo condiviso quindici anni della mia vita, con cui avevo riso, pianto, fatto l’amore e lottato perché i nostri sogni si avverassero, l’uomo che insieme a me portava le cicatrici di altri dolori, mi aveva improvvisamente lasciata sola. Arrivai alla conclusione che, per qualche strano motivo, aveva scelto di adottare una sua personale terapia d’urto volta a Dio solo sa cosa. Volevo disperatamente crederlo perché qualunque altra spiegazione sarebbe stata insopportabile.
“Onestamente credo che abbia paura”, disse Silvana. “Ha sepolto suo padre trent’anni fa. Sa cosa vuol dire. E sa che nulla di quello che dirà o farà adesso sarà la cosa giusta.“
Rimasi di sasso. Tutto mi sarei aspettata tranne che la mia migliore amica difendesse l’uomo che mi aveva spezzato il cuore. Dove diavolo era finita la solidarietà femminile?
“Gesù”, riuscii a balbettare e cercai con lo sguardo l’aiuto di Sabina.
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Quello sarebbe stato il momento giusto per una delle sue illuminanti intuizioni post-femministe sull’incapacità del genere maschile di cogliere l’essenza più profonda della vita. E poi, diamine, avevo sempre saputo che giudicava mio marito un essere emotivamente sottosviluppato per il solo fatto di non condividere con lei l’importanza dei gruppi di sostegno per l’autocoscienza. Invece, la traditrice, si limitò ad affondare, serafica, la forchetta nel barattolo di germogli di soia.
“Non per urtare la tua suscettibilità”, continuò Silvana come se niente fosse, “ma ti sembra normale quello che stai facendo? Voglio dire, tu sei l’angelo del focolare per eccellenza, tu sei così dolce ed equilibrata e generosa da far sembrare la famiglia del mulino bianco un branco di deficienti. Tu”, ribadì con enfasi, “tu, non lasci i tuoi bambini a nessuno che non abbia superato brillantemente almeno un test d’intelligenza, quello sul tasso alcolico, l’anti-doping, e che possa vantare una lettera di referenze lunga da qui al Polo Sud. E ora, tu, molli marito e figli per settantadue ore senza una spiegazione minimamente razionale. Questo”, disse, guardandomi con inquietante intensità, “lo fa Sabina, posso farlo io in piena sindrome premestruale, ma tu no”.
“E perché diavolo no?” chiesi quasi offesa.
“Perché quel branco di deficienti della famiglia del mulino bianco mi piace, va bene?” mi zittì, imbarazzata. “E tu sei l’esempio vivente che in questo mondo di merda esiste ancora qualcuno capace di trovare il partito-perfetto-per-un- matrimonio-perfetto- e- una- nidiata- di- bambini- perfetti. Se mi togli questo, io passerò il resto della mia vita a chiedermi perché diavolo ho piantato in asso Mister Sesso Sfrenato per sposare Luigi.”
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L’entità di quella rivelazione mi lasciò senza fiato. E doveva esserlo anche Sabina perché il boccone di semi di soia che stava mangiando non arrivò mai a destinazione.
Fermai la macchina. Non so quanto tempo trascorse prima che tutte le mie belle difese andassero a farsi friggere, ma so che tutta l’angoscia e la paura e la disperazione che mi portavo dentro implosero in quel preciso istante.
E piansi. Piansi perché il cielo era terso e l’aria profumava di primavera, perché il sole rendeva così maledettamente bella quella giornata, perché mio padre non avrebbe visto crescere i suoi nipoti e loro non avrebbero mai saputo che uomo straordinario era stato, perché il cancro gli aveva tolto tutto e io non ero stata capace di salvarlo. Piansi lacrime di dolore e di rabbia, consapevole che ogni cosa, con la sua morte si era sgretolata.
“Non sarò mai abbastanza forte per superare questa cosa”, singhiozzai. “Fa così maledettamente male. Io… io non sopporto l’idea che lui non esista più, che non possa mai più vedere un tramonto, o il mare o una notte stellata. Non sopporto che il mondo vada avanti come se nulla fosse accaduto. Ho passato così tanti giorni dopo la sua morte a raccontare ai miei bambini la storia dell’angelo Filidoro, venuto a prenderlo con il suo pulmino giallo, che ho finito per crederci anch’io. Volevo rannicchiarmi nel letto, con una confezione gigante di kleenex e autocommiserarmi fino alla nausea, invece mi sono ritrovata a cercare piume per tutta la casa perché i miei bambini avevano bisogno di sapere che il nonno stava mettendo le ali. Ed ero così presa da questa folle, strana magia che ogni singola cellula del mio corpo si era convinta che ovunque fosse mio papà, avrebbe trovato un modo per farmi sapere che esisteva ancora. Invece non è successo niente. E io vorrei avere il coraggio di spalancare le finestre e gridare al mondo intero di fermarsi perché mio papà è morto e niente… niente sarà mai più come prima.”
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L’avevo detto.
D’accordo, avevo anche detto un mucchio di cose strane e, a giudicare dall’espressione delle mie due più care amiche, mi ero probabilmente appena guadagnata il primato di casalinga emotivamente disturbata. Il fatto è che le parole mi erano scivolate fuori così, senza alcuna connessione logica. Pensai a mio papà il giorno in cui lo avevo visto l’ultima volta, al suo volto scolpito nella morte, immobile eppure di una bellezza che forse non mi era stata data di vedere in vita, al bisogno istintivo che avevo sentito di toccarlo, e alle migliaia di bellissime parole conservate nella memoria dei libri per descrivere quell’abisso che ti si spalanca dentro. A me, non ne era venuta in mente neppure una. Mi ero limitata a straparlare di un angelo di nome Filidoro, della mia pretesa di possedere poteri extrasensoriali e delle piume di mio padre. Oddio!
Forse aveva ragione Silvana. Forse di fronte all’enormità del dolore che la morte porta con sé, le parole smettono, semplicemente, di avere importanza.
“Fallo”, mi ordinò Sabina.
“Cosa?”
“Esci da questa fottuta macchina e grida al mondo intero che tuo papà è morto.”
Silvana per poco non si strozzò. “Ma sei scema?”
Nessuno di noi due le badò.
“Non posso farlo”, dissi dopo un lunghissimo silenzio.
“Certo che puoi.”
“Non posso”.
“Dammi una sola ragione valida”.
“Mio papà è nel portabagagli”.
Ora, avevo messo in conto tutta una serie di possibili reazioni a questa notizia, ma non avevo previsto l’enorme, fragorosa esplosione di yogurt che partì dalla bocca di Silvana.
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“Dio, che schifo!” urlò Sabina.
Silvana la ignorò. Respirò profondamente, due volte, le mani tese a comunicarci che se avessimo azzardato un qualunque commento sarebbe stata capace di uccidere, poi si schiarì la voce, e dopo aver riacquistato un minimo di autocontrollo, mi chiese: “Tuo padre è dove?”
Mi venne da ridere, ma mi guardai bene dal farlo. “Nel portabagagli”.
“Oh merda”, fu la sola cosa che Sabina riuscì ad articolare.
“Tu hai tumulato tuo padre stamattina”, mi ricordò Silvana con quella pacata lentezza che si usa quando ci si rivolge a un minorato mentale. “C’era tua mamma, tua sorella, il prete, un bellissimo mazzo di fiori bianchi e io ho anche versato due lacrime di commozione. Giusto?”
Abbozzai imbarazzata un sorriso.
“Oh merda”, balbettò di nuovo Sabina.
“Ora”, continuò Silvana con una lieve nota d’isterismo nella voce, ”dimmi che tuo padre riposa finalmente in pace, che l’urna su cui ho versato le mie preziose lacrime è lì dove dovrebbe essere.”
“L’urna è dove dovrebbe essere”, la tranquillizzai. “E le tue preziosissime lacrime sono state versate sulle ceneri di mio padre”, esitai. “Beh, diciamo su ciò che restava delle ceneri di papà”.
“Oh santa merda!” esclamò Sabina per la terza volta.
Silvana invece necessitò di un paio di secondi per capire.  “Mi stai dicendo che hai sottratto una parte del contenuto dell’urna?”
“Esatto”.
“E che ora quella parte è nel bagagliaio della mia macchina?”
“Esatto”.
A Sabina sfuggì una risatina. “E io che credevo di avere un problema”.
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“Noi ABBIAMO un problema! Si chiama trafugamento di cadavere. E non credo che tuo padre abbia mai neanche lontanamente ipotizzato di viaggiare tanto una volta… cremato”, concluse e il riferimento implicito a mia madre le strappò, suo malgrado, un sorriso.
“Credi che sia una cosa tanto sbagliata?”
“Naa, è solo un reato,” si arrese e io provai un improvviso, irrefrenabile bisogno di abbracciarla, cosa che evitai accuratamente di fare perché il contatto fisico non era contemplato nella definizione che Silvana aveva dato alla nostra amicizia. Così mi limitai a regalarle il mio più bel sorriso. “Restituisco mio padre al mare, va bene? Forse è un istinto ancestrale”.
Mi guardò come se avessi detto una parolaccia. ”Provaci ancora”, mi suggerì.
“Memoria atavica?”
“Ma ti droghi?” mi chiese senza battere ciglio.
“No, pensaci un attimo, visualizza l’acqua che scorre inarrestabile lungo il letto di un fiume. Scorre fino a giungere al mare così come la nostra vita giunge, prima o poi, alla fine. Quell’acqua non va perduta, Silvana, proprio come non va perduta l’essenza della vita nella morte. Mio padre amava il mare più di ogni altra cosa, era il suo quinto elemento e a quello deve tornare”.
Non era facile dare un senso a ciò che sentivo di dover fare, né potevo pretendere che qualcun altro lo capisse. Sapevo, però, che di qualunque cosa si trattasse, aveva a che fare, unicamente, con il mio modo di vivere il dolore e il bisogno di credere che la morte non fosse la fine di ogni cosa. Restituire le ceneri di mio padre al mare era forse il solo modo per chiudere un cerchio intorno alla sua vita, e donare a me stessa l’illusione che lui sarebbe sempre stato là, ai confini del mondo, a vegliare su di noi.
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Sabina mi mise un braccio intorno alle spalle e annuì, come per dirmi che andava bene così. Silvana invece si lanciò anima e corpo in una meticolosissima operazione di pulizia, strofinando con un po’ troppa foga le macchie di yogurt incrostate ai sedili. Immaginai che fosse il suo modo di riprendere in mano il controllo della situazione. Forse, alla fine, e quel pensiero mi deliziò oltre misura, ero riuscita a commuoverla davvero. Decisi di approfittare di quel momento per rispondere all’unica domanda che ancora esigeva risposta.
“Cornovaglia”.
“Ovvio”, disse Sabina dopo un lunghissimo silenzio e, nonostante lo sguardo truce che mi rivolse, capii che l’idea la intrigava.
“Corno che?” chiese Silvana, la cui conoscenza della geografia si limitava all’hinterland milanese. Le ci volle qualche istante per riemergere con una certa dignità dal fondo dell’abitacolo e dopo avermi strappato di mano la mappa stradale della Gran Bretagna, mi fissò come se le avessi proposto di andare fino in Patagonia. “Scusa, ma Ceriale ti faceva tanto schifo?”
Nascosi un sorriso. “Mi viene un tantino difficile associare Ceriale a un luogo capace di ispirare concetti quali immutabilità della natura e congiunzione cosmica”.
“Io, invece, comincio a pensare che tu abbia frequentato troppo Sabina.”
“Stai cercando di offendere?” brontolò Sabina.
Silvana mise il broncio. Da che ho memoria, non ricordo di aver conosciuto nessuno tanto nazionalista quanto lei.
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Ciò che agli occhi degli altri poteva sembrare una curiosa quanto insolita difesa dell’amor di patria, per lei era una sorta di missione, cosa che le aveva creato non pochi problemi quando aveva cominciato a frequentare la mia famiglia, le cui origini, per essere correttamente comprese, richiedevano la pazienza di un santo e una conoscenza geografica che a Silvana era sempre mancata. La sola idea che il paese natale di ciascun di noi non coincidesse con quello d’origine, la innervosiva e il fatto che a casa mia fosse assolutamente normale parlare tre diverse lingue la mandava in paranoia. Immagino che durante i nostri primi anni in Italia, mentre imparavamo a conformarci a una cultura che non ci apparteneva, la mia famiglia le fosse sembrata oltremodo strana.
Eppure, a modo nostro, rappresentavamo già allora, un perfetto esempio di spirito europeo. Che poi mia madre si ostinasse a parlarle in tedesco o che i piatti che venivano messi in tavola avessero impronunziabili nomi di origine anglosassone erano dettagli con cui Silvana, suo malgrado, aveva imparato a convivere. Da allora erano passati più di trent’anni, mia madre continuava, di tanto in tanto, a parlarle tedesco e lei ancora non riusciva a fidarsi di ciò che le davamo da mangiare. E io, naturalmente, non avrei mai smesso di giocare su questa nostra diversità per metterla a disagio ogni volta che potevo.
“Albenga?” tentò, qualche minuto più tardi.
“Insignificante”
“Bordighera?”
“Troppo turistica.”
“Rapallo?”
“Fuori discussione”.
“Portofino?”
“Naa, troppo snob”.
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Ci provò. Nel venti interminabili minuti che seguirono attinse ad ogni possibile risorsa umanamente accettabile per farmi cambiare destinazione. Tentò con la persuasione occulta e il ricatto emotivo, mi ricordò che mio padre era nato in Africa e che le gelide acque della Cornovaglia gli avrebbero congelato il karma, per non parlare delle sue già provate chiappe, mi mise di fronte a tutta una serie di implicazioni psicologiche che quel viaggio comportava, non per ultimo quello che definì “il precedente”. Perché da quel preciso momento, secondo la sua personalissima teoria, né lei né Sabina sarebbero più state in grado di concepire come realmente degna una normale e semplice sepoltura. Forse non aveva tutti i torti, forse avevo chiesto loro più di quanto pensassi, ma esistono circostanze in cui anche le più discutibili stranezze vengono, alla fine, perdonate e ogni donna che abbia messo al mondo un figlio lo sa. Stavolta non aspettavo un figlio. Piangevo la morte di un padre. Gli ormoni non c’entravano. Ma avevo imparato che lo stesso muto rispetto per chi porta in grembo una nuova vita, accompagna, senza rumore, colui che deve affidare un’altra vita alla morte.
Fu quella notte, mentre attraversavamo in silenzio le buie campagne francesi, che mi resi conto, per la prima volta, che mio padre aveva vissuto senza far rumore.  Non sapevo molto del suo passato, come non sapevo quali sogni o paure o pensieri avessero attraversato la sua vita. Ciò che invece sapevo, era che mio padre apparteneva a una generazione ancora capace di accettare la morte come un fatto naturale, e che i dolori che avevano segnato la sua fanciullezza erano stati, in qualche modo, leniti da quel piccolo universo protetto che aveva costruito intorno a noi. Quali fossero stati i suoi sogni e i suoi dolori, le sue vittorie e le sue sconfitte, non ci era stato permesso di toccarli. Per pudore.
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Ora so che fu quel pudore ad accompagnarlo verso la morte, proteggendoci, fino all’ultimo da un male che lui stesso sapeva di non poter sconfiggere.
Questo gli era bastato.
Forse era anche per questo che la sua morte faceva tanto male. Eravamo stati il centro del suo universo, il motivo per cui ogni mattina si era svegliato e aveva spalancato le finestre su un nuovo giorno, per cui aveva lottato e per cui ogni cosa era sempre stata sopportabile.
Ero dovuta diventare madre per capirlo.
Solo molto tempo dopo mi sarei resa conto di quante vite mio padre avesse toccato. Persone che di lui custodivano ricordi lontani ma indelebili e che parteciparono al nostro dolore con una semplicità e una delicatezza che ci commosse. Conservo ancora le loro lettere, perché fu attraverso quei ricordi che imparai a conoscere l’uomo che sarebbe poi diventato mio padre.
Arrivò la notte e Silvana si addormentò. Per certi versi fu una benedizione perché viaggiare con lei era come viaggiare con i miei figli. Richiedeva la stessa santissima pazienza. Nonostante avesse superato da un pezzo i trent’anni, i suoi bisogni primari avevano la stessa elasticità di quelli di un bambino di cinque. Nessuna. Colazione alle nove, pranzo a mezzogiorno, merenda alle quattro e cena alle otto. Possibilmente seduta a un tavolo apparecchiato. Fu solo quando me ne resi davvero conto che riconsiderai seriamente l’eventualità di modificare la nostra destinazione. So che non dovrei dirlo, ma Sabina e io arrivammo, per un breve istante, persino a valutare la possibilità di far cadere, in modo del tutto accidentale, ovviamente, qualche goccia di sonnifero nel suo termos di caffè. Grazie al cielo, madre natura ebbe pietà di noi perchè Silvana dormì come un sasso tutta la notte, e noi ne approfittammo per tirare dritto senza l’immancabile e snervante sosta a ogni singolo sperduto autogrill lungo la strada.
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Parlammo molto quella notte. Sabina possedeva il dono di saper ascoltare le persone ed io avevo un gran bisogno di mettere ordine alle mie emozioni. Non so con quanta coerenza lo feci. Di sicuro non molta visto che, più di una volta, fummo colte da un attacco di ridarella tale da farci dolere muscoli la cui esistenza avevamo, fino ad allora, beatamente ignorato. E contravvenimmo, con infantile piacere, alle due sole, ma categoriche regole imposte da Silvana: non fumare in macchina e non superare i limiti di velocità. Se mai le fosse arrivata una multa, mi sarebbe toccato cimentarmi in un’interpretazione strappalacrime del mea culpa, anche se immaginavo che in qualità di vigile lei avesse assistito a un repertorio piuttosto ampio di suppliche e prostrazioni. Dopodiché, considerando la sconcertante quantità di arbre-magique che pendevano, stile tassista giamaicano, ovunque ci girassimo, ci parve superfluo porci il problema fumo.
“Credi che Silvana avesse ragione prima?“ chiesi a voce bassa.
“A proposito di cosa?”
“Della paura. Voglio dire, può il silenzio di fronte a un dolore così grande, essere semplicemente dettato dalla paura?”
”Non sapeva cosa aspettarsi.”
“E’ mio marito, Sabi.”
“Avrei avuto paura anch’io”.
“Ma di cosa?”
Sabina mi guardò come se fossi scema. “Che ne dici di questo?” chiese, allargando le braccia.
Sorrisi. “Hai ragione”.
“Appunto.”
“Sai, non avrei mai creduto di esserne capace.”
“Se è per questo, nemmeno io.”
“Suona quasi come un complimento.”
“Sai perchè mi piaci'", chiese tutto d'un tratto.
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“Tu mi confondi. Ogni volta che penso di aver capito qualcosa di te, tu tiri fuori dal tuo cilindro un petardo e me lo fai scoppiare in faccia. Così, tanto per darmi una lezione di umiltà.”
“Non l’avevo mai considerata da questo punto di vista.”
“Beh, comincia a farlo.” Ripescò il barattolo di semi di soia dallo zaino e lo aprì.
“Sono le tre del mattino, ” le feci notare. “Come diavolo fai a mangiare quella roba?”
“Mens sana in corpore sano. Ne vuoi un po’?”
“Potrei vomitare”.
“Coltivazione biologica”, ci tenne a precisare.
“Puzza lo stesso”.
“Sei la solita snob”. Mi lanciò un sorriso assassino. “Ti ho mai parlato dei diversi livelli di coscienza?”
“Più o meno un milione di volte.”
“A qualcosa, però, è servito, non credi?”
“Può darsi”, ammisi, ridendo. “Al momento sono molto più interessata al tuo corso di tantra”.
“Ex”, precisò con una punta di sarcasmo, poi disse la sola cosa che non mi aspettavo di sentire. “Voglio un figlio.”
“Tu?” chiesi incredula.
“No, Frittella”, rispose, alludendo al criceto di Silvana.
“Decisamente deve essermi sfuggito qualcosa”, dissi, cercando di dare un ordine cronologico alle sue ultime vicende sentimentali.
“Abbiamo deciso di andare a vivere insieme, io e Frittella… io e Fabrizio”, si corresse. “Così, tanto per vedere se riusciamo a far funzionare le cose. Sai quanto io sia affezionata ai miei spazi vitali”. 
Mi limitai ad annuire.
“Se la cosa funziona potrebbe essere quello giusto per fare da padre a mio figlio”.
“Nostro”, la corressi. “Di solito il figlio è di entrambi.”
“Se lo devo partorire io, è mio.”
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Odio doverlo ammettere, ma in parte ero responsabile di quell’affermazione. Quando nacque il mio primogenito, Sabina e Silvana mi chiesero cosa significasse davvero partorire. E io glielo spiegai. D’accordo, forse all’epoca ero ancora un tantino sotto choc per quella che mi era sembrata l’esperienza più traumatizzante e dolorosa della mia vita, ma avevo giurato a me stessa di portare, in futuro, sufficiente rispetto al genere femminile per evitare l’insulsa versione poetica che mi era stata propinata in gravidanza. O io ero la quintessenza della vigliaccheria, o l’esercito delle madri fautrici di un parto “naturale e pienamente consapevole” avevano vissuto in sala travaglio una qualche esperienza mistica al limite dell’allucinazione perché io, personalmente, di poetico, non ci avevo visto proprio nulla. L’unica cosa di cui ero stata pienamente consapevole era l’istinto omicida che avevo provato verso mio marito ogni volta che si era azzardato a dirmi che dovevo spingere. Una certa dose di coraggio, però, dovevo possederla anch’io visto che decisi di mettere al mondo un altro figlio. Bisognava solo organizzarsi e comunicare con dovuta fermezza ai medici che era mio diritto richiedere l’epidurale. Così pensai di fingermi avvocato, tanto per stroncare sul nascere qualunque discussione, e avrebbe funzionato se il mio adorabile secondogenito non avesse deciso di venire al mondo con la stessa velocità di un missile intercontinentale.
Ciò che mi sfuggì quella notte, mentre attraversavamo la Manica sotto un cielo che prometteva tempesta, fu il nesso tra il tantra e il desiderio che provava Sabina di avere un figlio. Immagino che fossimo entrambe troppo stanche per formulare una qualunque frase che avesse un minimo di  logica o di coerenza grammaticale. Così restammo in silenzio, affacciate al ponte del traghetto, lasciandoci semplicemente inghiottire dall’oscurità.
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Sabina sarebbe diventata madre. Vorrei poter dire che quel pensiero mi commosse, ma non fu così. Erano accadute troppe cose perché potessi permettermi di provare di nuovo una qualunque emozione. Eppure la nascita di un figlio è quanto di più sconvolgente e straordinario possa capitare a un essere umano. Sovverte l’ordine delle cose, modifica la nostra percezione della vita, ci spoglia di ogni certezza al punto da avere la sensazione di vivere senza pelle. E’ la consapevolezza che nulla avrà mai più davvero importanza, perché quell’amore senza pelle, così totale ed incondizionato sarà la sola cosa che, da quel momento, darà senso a ogni nostro gesto.
Eppure mai, come da quando ero diventata madre, avevo avuto tanta paura. Come potevo spiegarlo a Sabina?
Non potevo. Come non potevo raccontarle cosa mi aveva spinto ad intraprendere quel viaggio. Avevo letto da qualche parte che non ci viene dato nulla più di quanto possiamo sopportare.
 Avevo perso mio padre. Col tempo avrei imparato ad accettarlo.
 Poi, in una notte di pioggia, avevo perso l’uomo che consideravo un maestro, l’uomo che mi aveva insegnato essere una madre, che senza rumore era entrato a far parte della mia vita come pediatra per poi diventare un secondo padre. Si era tolto la vita. E il suo gesto, carico di un dolore e di una disperazione senza confini mi aveva annientato.
So che pensai: un attimo. E’ solo un attimo. La nostra vita si riduce a un unico piccolo attimo. Si era tolto la vita in un giorno di pioggia. Forse, se quel maledetto giorno ci fosse stato il sole avrebbe trovato la forza di sopportare la sua disperazione. Perché il dolore passa. A meno che qualcosa non si spezzi irrimediabilmente.
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Fu allora che cominciai a pormi domande pericolose. Era come se il suo gesto avesse spalancato una porta che non ero ancora pronta ad aprire. Per la prima volta in vita mia compresi che per ognuno di noi esiste un punto di non ritorno. E cominciai ad avere paura. Paura che le ferite che portavo impresse nel cuore si potessero infettare.
Avevo bisogno di richiudere quella porta, subito. E il solo modo per farlo era tornare, anche solo per pochi giorni, a quel mondo che mi aveva vista ancora innocente. 
Esiste un tempo per ogni cosa. Un tempo per la gioia e un tempo per il silenzio, un tempo per il dolore e un tempo per i ricordi.
Quello era il mio tempo del dolore. E io non avevo saputo dividerlo con nessuno. Perché?
Volevo pensare che fosse per pudore, ma non era così.   La verità è che avevo scoperto come amare attraverso il dolore. So che suona maledettamente strano, ma se potevo accettare la morte, non potevo, invece, accettare che con essa tutto andasse perduto. Il ricordo del primo giorno di scuola, il primo bacio, i sogni, le speranze, la nascita di un figlio, le risate, le lacrime, il coraggio, i rimpianti, il sapere di una vita intera.
 Se andava perduta la nostra storia, cosa rimaneva?
 I ricordi, all’inizio, fanno male. Bene, io volevo star male. Avevo tutto il sacrosanto diritto di star male. Guai a chi avesse osato frapporsi tra me e il mio dolore. Era mio e tenerlo in vita era diventato un atto d’amore.
Ma non era mia la storia. Era la storia di mio papà ed era iniziata molto prima che io venissi al mondo.
 A centinaia di chilometri di distanza mio marito dormiva abbracciato ai nostri due bambini.
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Chiusi gli occhi e pensai che quella era la mia storia: il profumo dei biscotti appena sfornati, i miei bambini infarinati dalla testa ai piedi, le loro risate infantili, le montagne di pannolini e gli scarabocchi appesi al frigorifero, le favole sussurrate nella penombra, le loro prime paure e le loro sconcertanti domande sul senso della vita, il modo in cui in piena notte i loro corpicini si stringevano ai nostri per il solo bisogno di sentirsi al sicuro. Pensai all’uomo che insieme a me aveva dato vita a tutto questo e mi chiesi come avevo potuto essere tanto cieca da non vedere quanto amore si celava dietro al suo silenzio. Era sempre stato lì, accanto a me, e senza rumore aveva aspettato, perché il suo corpo, forse più della sua mente, conservava intatta la memoria del dolore.
Dicono che il solo battito d’ali di una farfalla possa scatenare nel tempo e nello spazio reazioni abnormi.
Fu quel pensiero, credo, a porre fine al mio tempo del dolore. Non avrei mai smesso di chiedermi dove fosse mio padre o cosa avesse davvero provato nei mesi e nei giorni che avevano preceduto la sua morte, come non avrei mai smesso di domandarmi quale terribile sofferenza potesse spingere un uomo a vedere nella morte la sola via d’uscita. 
Ma ci sono cose di cui non ci è dato conoscere il perché. E forse, è meglio così.
Sapevo che sarebbe sempre esistito un prima e un dopo.
Ma era venuto il momento di chiudere quella porta. Fino al prossimo battito d’ali.
Fu poco prima dell’alba, quando ormai ci trovavamo su terra inglese, che capii di aver superato da un pezzo la soglia della stanchezza.
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Sabina si era addormentata in una posizione che avrebbe rimpianto per tutto il giorno dopo e Silvana russava beatamente, il collo incastrato in una primitiva ciambella anti-cervicale e una mascherina nera sugli occhi. Se non fossi stata tanto stanca avrei notato anche le ridicole pantofole di carta, omaggio di qualche volo transoceanico. La sola cosa che invece realizzai prima di cedere al sonno, fu che volevo tornare a casa.
In Inghilterra avevo trascorso i primi cinque anni della mia vita. Lì era nata mia sorella e lì, anche se in maniera confusa, hanno inizio i miei ricordi d’infanzia. Sarebbe però stato quel viaggio a rendere l’Inghilterra davvero speciale per me, Sabina e, anche se non lo avrebbe mai ammesso, per Silvana. Furono solo dodici ore, rubate alla nostra vita di donne adulte, ma negli anni a venire avrei ricordato quelle ore come l’ultimo vero passaggio dalla giovinezza alla maturità.
“Vi rendete conto che a questo punto non ci resta che invecchiare?” esordii.
“Parla per te”, replicò Sabina.
“Sul serio. Siamo sulla soglia dei quarant’anni”.
“Io non ho quasi quarant’anni”, protestò Silvana, ma dal modo in cui la sua espressione si accigliò capii che stava facendo i conti.
“Quale fulgido pensiero per iniziare la giornata!” esclamò Sabina, guardandomi di traverso.
“E’ una semplice constatazione”.
“Beh, tienitela da parte per la menopausa.”
“Ho bisogno di un altro caffè”, ci informò Silvana.
“Ha bisogno di un altro caffè”, mi trovai a ripetere in assenza di una qualunque reazione di Sabina.
“E chi se ne frega.”
Silvana appoggiò entrambi i gomiti sui sedili anteriori e le sorrise. “Dormito male?”
“Vuoi che ti risponda sinceramente?”
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“No, voglio solo un caffè.”
Naturalmente ci fermammo, e naturalmente i tempi di Silvana superarono il limite della decenza. Fu quando la vedemmo scomparire in bagno per l’ennesima meticolosa operazione di igiene dentale che Sabina e io ci sentimmo autorizzate a dare un’occhiata al contenuto della sua, fino ad allora, inseparabile borsa da viaggio. D’accordo, non era quello che si poteva definire un esempio di correttezza o di rispetto della privacy, ma se io avevo intrapreso quel viaggio semplicemente con uno zaino e le ceneri di mio padre, Silvana aveva caricato in macchina l’equivalente di un negozio di articoli per la sopravvivenza in Amazzonia. Di per sé la sola ciambella anticervicale con mascherina e pantofole coordinate le sarebbero valse anni di feroci battute, ma alla tentazione di scoperchiare il suo ultimo vaso di Pandora fu più forte di qualunque, già debole, remora morale.
“E voi vi siete permesse di criticare i miei germogli di soia”, disse Sabina, aspettando il ritorno di Silvana per sventolarle davanti al naso il salame lungo venti centimetri che aveva trovato nella borsa.
“Sono semplicemente previdente”.
“Previdente?”
“Già, previdente.”
“E la forma di mortadella cos’è? Lungimiranza in caso di guerra nucleare?”
Spalancai gli occhi e mi girai verso Silvana. “Vuoi dire che mio padre ha viaggiato tutto questo tempo accanto a una forma di mortadella?”
“Come cavolo facevo a sapere che ci sarebbe stato anche lui?” si difese Silvana, paonazza.
“Non ci posso credere. Commetto un reato per portare le sue ceneri in uno dei luoghi più suggestivi d’Europa e tu me le sistemi accanto a una forma mortadella!”
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“C’è anche una crema per le emorroidi”, mi informò Sabina, cominciando a ridere.
Mi girai verso Silvana. “Tu hai le emorroidi?”
“Io NON ho le emorroidi!”
“E di grazia, quale uso pensi di farne se non hai le emorroidi?”
“E’ per le borse sotto gli occhi, va bene?” rispose Silvana sempre più a disagio, e fu a quel punto che ruppi ogni indugio e cominciai a ridere come non ridevo da anni.
Risi come solo i bambini sanno ridere. Senza pensieri. Senza null’altro che il cuore. E là, per un istante, in mezzo ai campi di grano e alle nuvole bianche come zucchero filato, tornai innocente. Scesi dalla macchina, incapace di smettere di ridere e alla fine, esausta, mi sdraiai sull’erba.
“Esiste l’aggravante per la crudeltà mentale”, si lamentò Silvana. “E’ che nessuno si azzardi a dire che non sussiste reato perché si chiama violazione della privacy”.
Sabina si sdraiò accanto a me le sorrise. “Si chiama senso dell’umorismo, Silvana.“
“Ti sembra forse che io stia ridendo?” chiese stizzita, poi lo sguardo le cadde sulla forma di mortadella e credo che dovette ricorrere a tutte le sue forze per rimanere seria, perché se si escludeva un’improvvisa quanto improbabile paresi facciale, il modo in cui contrasse i muscoli del viso poteva solo significare un disperato tentativo di mantenere un’espressione offesa.
“Credo che dovremmo rimediare,” propose Sabina, incrociando le braccia dietro alla testa. ”Far tornare gli equilibri alle giuste proporzioni.”
Il mio sguardo incrociò quello perplesso di Silvana.
“Potrebbe essere un atto profondamente liberatorio, le cui implicazioni andrebbero a ristabilire quella corretta simmetria relazionale su cui si fonda la nostra amicizia. Siete d’accordo?”
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Lo ammetto, non avevo capito un accidenti. Non che non fossi abituata alle acrobazie verbali di Sabina e al suo linguaggio zen, ma questo, onestamente, andava un tantino oltre.
“Wow!” esclamò Silvana, a cui probabilmente non era venuto in mente nulla di più intelligente da dire e ne dedussi, con un certo sollievo, che il suo livello di comprensione era pari al mio.
Sabina ci guardò come se fossimo entrambe deficienti. “Devo parafrasare?”
“Te ne sarei infinitamente grata,” risposi con un sorriso.
“Quid pro quo”, disse molto lentamente.
“Quid che?” chiese Silvana.
“Qualcosa per qualcos’altro”, spiegai, cominciando a capire dove voleva arrivare. 
Silvana si mise comoda. “L’idea comincia a piacermi”.
“E’ solo una mortadella”, cercai di sdrammatizzare.
“Corretta simmetria relazionale”, mi ricordò Silvana, raggiante. “Chi comincia?”
“D’accordo”. Sabina trasse un profondo respiro e si mise a sedere. “Ho fatto sesso col giardiniere.”
 Mi coprii il volto con entrambe le mani. “Ti prego, no”, la implorai.
“Ti prego SI’”, mi corresse subito Silvana, poi si girò verso Sabina, incrociò dignitosamente le gambe e assunse la stessa serissima espressione di chi sta per assistere ad una lezione di fisica quantistica.
“La tua vita sessuale ha per caso subito una qualche flessione?” mi divertii a prenderla in giro.
“Ho un figlio di diciotto mesi. Chi se la ricorda una vita sessuale”, mi zittì e tornò a guardare Sabina. “Parlami del giardiniere.”
“Convenzionale”, disse lei.
“Convenzionale”, ripeté Silvana, delusa.
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 “Non il sesso. Quello è stato grandioso. L’esperienza in sé è stata meravigliosamente convenzionale.”
La fissai, onestamente sconcertata. “Da quando in qua fare sesso col giardiniere è convenzionale?”
Sabina alzò le spalle. “Forse non voglio diventare come mia madre”, disse come se quella fosse la spiegazione   più naturale del mondo. Ora, afferrare la connessione tra l’atto sessuale con il giardiniere e sua madre richiedeva una certa capacità di logica creativa, dote che Silvana e io avevamo, per forza di cose, imparato ad affinare per riuscire a sostenere con Sabina una qualunque conversazione che non fosse puramente demenziale. Eppure, e accadeva quasi ogni volta, nel seguire i suoi complessi equilibrismi mentali, finivo per sentirmi un’idiota.
Sabina abbozzò un sorriso. “E’ stato borghese, okay?”
“Non credo che mia madre sia mai andata a letto con il giardiniere”, le feci notare.
“Lo so”. Arricciò il naso. “Non sto dicendo di aver fatto una cosa di cui andare fiera, anzi, probabilmente ho agito da perfetta cretina. Ero annoiata, insoddisfatta da una relazione mortalmente noiosa e non so come, una mattina  ho pensato che poteva essere istruttivo calarmi nel ruolo di donna fedifraga, così a puro titolo sperimentale.” Sorrise, come solo lei sapeva sorridere quando tentava di spiegarci il perché delle sue scelte.
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“Il fatto è che ho trascorso gran parte della mia vita comportandomi in modo così non convenzionale che, alla fine, mi è venuto il dubbio che le mie stranezze fossero, a modo loro, più convenzionali di quanto credessi. Con questo non intendo rinnegare nulla di ciò che ho fatto. Continuerò a frequentare il mio gruppo di autocoscienza, a far teatro con le mie amiche psicopatiche e a girare nuda per le spiagge, e probabilmente trascorrerò ogni martedì pomeriggio della mia vita sdraiata sul lettino del mio analista, ma non voglio arrivare a sessant’anni, come mia madre, e rendermi improvvisamente conto che la mia perenne ricerca di qualcosa ha finito, in un modo o nell’altro, per ferire le persone che amo. Allora ho cominciato a pensare a cosa voglio davvero, e indovinate un po’?”
Silvana e io ci guardammo bene dal tentare una risposta.
“Una casa, un marito e dei bambini”, disse e, in quel momento, capii che era inutile cercare una sequenza logica in quel marasma di pensieri. Alla fine, la storia del giardiniere era stato solo un modo, forse un po’ goffo, per portarci a una verità che fino ad allora non aveva osato confessare a nessuno: il desiderio di una vita normale. Oddio, normale era forse un concetto un tantino azzardato per Sabina. Se fare sesso con il giardiniere rappresentava, nel suo immaginario, uno stereotipo di vita borghese, avevo quasi paura di chiedermi in che modo sarebbe scesa a patti con tutto ciò che una normale, tranquilla routine familiare comportava. Di una cosa, però, ero sicura: Sabina non avrebbe incasinato tutto come sua madre. Non che avessi qualche dubbio sul fatto che, un giorno, i suoi figli avrebbero padroneggiato i princìpi dell’autocoscienza meglio delle normali tabelline, o che sarebbero stati nutriti a germogli di soia e cibi esclusivamente biologici, ma  sarebbe stata una brava mamma, consapevole, forse più di noi, di quanto fosse facile, a volte, complicare irrimediabilmente la vita ai propri figli.
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“Allora niente storie di sesso”, concluse Silvana con un sospiro che avrebbe dovuto comunicarci tutta la sua delusione e mi ci volle qualche minuto per accorgermi che entrambe avevano focalizzato la loro attenzione su di me.
“Il mio postino non è male”, ammisi con un mezzo sorriso. “Ma giuro su Dio che non mi è mai neanche passata per l’anticamera del cervello l’idea di farci del sesso.”
“Perché no?” mi chiese Sabina, come se fosse la cosa più ovvia del mondo.
“Oddio, ma ti sembra una domanda da fare?”
“Ho visto il tuo postino”, mi ricordò, serissima.
Cominciai a ridere. “D’accordo, è attraente. E allora? Il fatto che io non consideri l’eventualità di fare sesso con un uomo attraente ti sembra così strano?”
“Sì.”
Mi chiesi se fosse impazzita. “Sabina, sono sposata.”
Sorrise. “Da quasi sedici anni”.
“Felicemente sposata”, puntualizzai.
“Sessualmente repressa”.
“Ancora innamorata.”
“L’amore non preclude certe fantasie.”
La guardai, sconcertata. “La parola fedeltà ti dice qualcosa?”
Sabina ci pensò su. “Sai, l’idea di dover far sesso, tutta la vita, con un solo uomo mi disturba un po’.”
Come premessa non era male. Provai un moto di simpatia incondizionata per quel poveraccio che avrebbe diviso con lei gli anni a venire, chiedendomi se aveva anche solo una vaga idea di ciò che lo aspettava. “Sei proprio sicura di voler andare a vivere con Fabrizio?” chiesi con tutto il tatto di cui ero capace.
Mi guardò come se fossi scema. “Certo che sono sicura. Perché diavolo credi che mi sia iscritta al corso di tantra?“
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Certo, il tantra. Come potevo non aver collegato le due cose? Lo ammetto, per un brevissimo istante ci provai, poi mi arresi. Capitolai, senza neppure domandarmi chi di noi due avesse un problema. Sabina e io appartenevamo a pianeti diversi. Tutto lì.
“Appurato che l’argomento sesso si è tristemente esaurito, “ disse Silvana, alzandosi, “propongo di rimetterci in viaggio, prima che la mia sinusite prenda coscienza dell’umidità che sto respirando. Siete d’accordo?”
Se un serpente ci avesse morso, non saremmo schizzate in piedi con la stessa velocità. La sola idea di dover sopportare Silvana in preda a un qualunque malessere fisico, era motivo sufficiente a renderci condiscendenti oltre il limite della decenza. E per un breve, meraviglioso istante mi convinsi di essermela cavata. Il postino si era dimostrato un ottimo diversivo, o perlomeno fu quello che pensai fino a quando non incrociai lo sguardo divertito delle mie due migliori amiche. Mi stavano semplicemente concedendo ancora un po’ di tempo.
Caricai in macchina i bagagli mentre Sabina vagava esasperata in mezzo al campo di grano, cercando un angolo sufficiente appartato perché Silvana potesse espletare, in tutta privacy, un’impellente funzione fisiologica e, quasi senza accorgecene, scivolammo in un silenzio che ci avrebbe accompagnato per molti, molti chilometri. Forse eravamo solo stanche, o forse, mentre ci addentravamo in quella terra a ridosso dell’oceano, il vero motivo del nostro viaggio diventò improvvisamente reale. La notte prima Sabina mi aveva chiesto cosa avrei fatto una volta arrivata sulle scogliere della Cornovaglia. Non avevo saputo risponderle. Sedici ore mi erano sembrate, se non un’eternità, un tempo sufficientemente lungo per rimandare qualunque decisione.
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Quelle sedici ore stavano per scadere e la sola cosa a cui riuscivo a pensare e che, da lì a poco, avrei dovuto dare l’ultimo, definitivo addio a mio papà.
E che non volevo farlo.
Non volevo salire su nessuna maledetta scogliera e non volevo dover guardare nessuno stupido oceano. Dio, ero stata così sicura che fosse la cosa giusta da fare che mai, nemmeno per un istante, avevo considerato quanto avrebbe fatto male.
Guardai le nubi troppo scure addensarsi all’orizzonte e pensai che quel cielo spaccato in due fosse la cosa più bella e, allo stesso tempo, terribile che avessi mai visto.
Non avrei più pronunciato la parola papà.
E’ strano come siano sempre le piccole cose a far più male. Eppure fu quell’unico, piccolo pensiero a riportare a galla la disperazione che, nei giorni successivi al funerale, mi aveva reso difficile perfino respirare. Dio, allora avrei dato qualsiasi cosa per sentirmi dire che era normale, che il mio corpo aveva bisogno del dolore per metabolizzare la morte. Ma della morte non si parla. Non sta bene.   
Oggi so che fu il mio corpo a soffrire, forse più della mia mente. Mi ero negata il diritto di piangere perché le lacrime creano imbarazzo e, senza rendermene conto, avevo negato ai miei bambini, il senso del dolore.
“Ferma la macchina”, ordinai a Sabina.
Lei mi guardò disorientata.
“Ferma la macchina”, la pregai con un’espressione che probabilmente la spaventò. “Non riesco a respirare”.
“Okay, cerca di star tranquilla”. Inchiodò in mezzo alla strada e dopo una frenetica ricerca nel cruscotto mi porse un sacchetto di carta. “Respira qui dentro.”
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Obbedii. Accostai il sacchetto alla bocca e cominciai a respirare profondamente.
“Va tutto bene”, disse Sabina con dolcezza. “E’ solo un attacco di panico.”
“Non voglio salire sulla scogliera”, mormorai, sentendo le lacrime bruciarmi gli occhi.
“Abbiamo ancora un sacco di tempo”.
“Balle”.
“Senti, nessuno qui pensa che sia una cosa facile,  d’accordo?” Mi sorrise con tutta la tenerezza di cui era capace. “E’ il tuo funerale, Claudia, quello che tu hai scelto per tuo papà e se devo essere sincera, credo ci voglia un gran coraggio per fare quello che stai facendo tu. Ma è una cosa bellissima e io sono profondamente onorata di essere qui.”
Alle nostre spalle Silvana tirò rumorosamente su con il naso. Non ebbi il coraggio di guardarla. Rimasi attaccata al mio sacchetto di carta, cercando qualcosa da dire, ma sapevo che se avessi pronunciato anche solo una parola, avrei inondato la macchina di lacrime.
“Va meglio?” mi chiese Sabina dopo un po’.
Annuii.
“Sicura?”
Annuii di nuovo, senza mollare il sacchetto.
“Guarda che non mi sconvolgo se piangi”.
“Non voglio piangere”. Quand’è che ero diventata così brava a mentire?
“D’accordo”.
“D’accordo un corno”, disse Silvana, strappandomi il sacchetto di mano. Lo accostò alla bocca, ci respirò dentro un paio di volte, poi drizzò le spalle per darsi un contegno e mi porse, nell’ordine, un fazzoletto di carta, una sigaretta  e una microscopica bottiglietta di brandy.
“Sono astemia”, le ricordai, chiedendomi cos’altro ci era sfuggito nella perquisizione dei suoi bagagli.
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”Se è per questo, anch’io”. Svitò una bottiglietta per sé e ne diede una terza a Sabina. “Non bevo, non fumo e non trasporto per mezza Europa le ceneri dei defunti, ma considerate le circostanze ho intenzione di contravvenire a ciascuno di questi sani ex principi, per cui fatti passare il tuo attacco di panico e visualizzami la sigaretta accesa.”
Sabina ed io ci guardammo esterrefatte.
“Al signor Mancino”, brindò Silvana in tono solenne. “Che rimarrà nella memoria di noi tutti come un uomo gentile, riservato e profondamene discreto, uno dei pochi veri gentleman che ho avuto l’onore di conoscere, e che grazie a Dio non ha mai sospettato di avere una figlia psicopatica e due ex vicine di casa con potenziali tendenze  criminali.” Bevve il suo brandy tutto d’un fiato. “Ma come sostiene Sabina, stiamo facendo una cosa bellissima, per cui cercherò di non pensare al fatto che sono un pubblico ufficiale dalla reputazione immacolata che sta violando una decina di articoli del codice penale e mi concentrerò esclusivamente sull’aspetto trascendentale dell’intera faccenda.”
“Wow!” esclamò Sabina senza parole. Si aggiustò gli occhiali sul naso, sollevò il brandy in segno di approvazione e lo bevve in un unico lunghissimo sorso. “Gran bel discorso.”
“Grazie”, rispose Silvana, scimmiottando un inchino.
Sorrisi, nonostante tutto. “Voi siete matte”.
“Bevi”, mi ordinarono all’unisono. Tergiversai qualche istante, poi buttai giù il brandy, inspirai a fondo, e confessai loro qualcosa che avevo giurato a me stessa di non rivelare mai a nessuno. “Gli mando dei messaggi con il cellulare”. Gesù, detto ad alta voce suonava decisamene strano, ma considerai che a quel punto era difficile che le mie amiche si stupissero ancora di qualcosa.
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“Con E.T. ha funzionato”, mi fece notare Silvana, serissima. Rimase in silenzio per un tempo che mi parve interminabile, poi esplose in una risata così sincera e incontenibile che, per un istante, pensai davvero che le sarebbe mancato l’ossigeno. Dio, credo di non averla mai vista ridere tanto. Semplicemente non riusciva a smettere.
 “Scusami”, pigolò con le lacrime agli occhi.  “Mi è uscita così”. E ricominciò a ridere, senza il minimo pudore. Alla fine si calmò, forse perché a quel punto era umanamente impossibile continuare senza star male.
“Tutto okay?” s’informò Sabina.
“Un semplice attacco isterico”, ammise Silvana, sdraiandosi esausta sui sedili.
Non so come accadde, ma dieci minuti più tardi eravamo sedute in un pub a bere come alcolizzate professioniste. Raccontai loro tutto, delle lettere che avevo scritto a mio padre, del profumo che a volte sentivo in casa e che sapevo, contro ogni logica, essere il suo, del suicidio del mio pediatra e della sensazione che avevo provato di spezzarmi fisicamente in due, delle notti trascorse a chiedermi perché quel mondo che aveva inghiottito i miei morti improvvisamente non mi spaventava più. Raccontai loro la verità come forse non avevo saputo raccontala a me stessa, senza purificarla di ciò che il resto del mondo avrebbe giudicato irriverente o moralmente inaccettabile. E raccontai loro il dolore, perché alla fine di tutto, era stato il dolore a scavare dentro di me una fossa che sarebbe rimasta lì per ricordarmi che ogni cosa, di questa vita, è semplicemente un’illusione.
Loro, beh, loro furono fantastiche. Mi ascoltarono senza fare domande perché mi volevano bene e perché, come seppi molti anni più tardi, compresero solo allora quanto noi tre fossimo impreparate al dolore.
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Non so né quanto né cosa bevemmo, ma so che ciascuna di noi conserva un ricordo molto nitido dei discorsi e delle lacrime, mescolate a risate, che sconvolsero la quiete di quello sperduto pub nel cuore della Cornovaglia. In un certo senso, credo che l’alcool ci abbia semplicemente aiutato a guardare le cose sotto una prospettiva diversa, allontanandoci da tutto ciò che fino ad allora ci era stato insegnato. E, come concluse Sabina, ciò che stavamo per fare, avrebbe avuto su ciascuna di noi un impatto emotivo tale da modificare, in modo irreversibile, la nostra futura percezione della vita e della morte.
Quindici tazze di caffè più tardi avevamo riacquistato, se non una certa lucidità, la calma necessaria per prendere una decisione. Avremmo affrontato il passaggio dalla vita alla morte nel modo più naturale e primitivo possibile. Fu il concetto di primitivo a sollevare i primi dubbi di Silvana. Non che Sabina e io avessimo le idee più chiare, ma suonava bene e questo ci bastava.
“Bianco”, dissi, mentre tornavamo verso la macchina. “Mi serve un vestito bianco. E niente scarpe.”
Silvana mi fissò orripilata. “Vuoi dire che hai intenzione di camminare scalza fino alla scogliera?”
“Il contatto con l’elemento terra è fondamentale,“ tagliai corto.
“E con l’elemento cacca di capra come la metti?”
“Grazie. Un po’ di poesia ci mancava”.
“Guardati intorno. Capre. Decine e decine di capre, ovunque.”
“E allora?”
“E allora finirai per pestare la loro cacca.”
”Trascendi”, le suggerì Sabina con un sorriso assassino.
Silvana ci pensò su. ”Va bene, trascendo.”
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“Brava ragazza.”
“Acqua, terra, aria,” elencai, decidendo di ignorare i loro battibecchi. “Manca il fuoco”.
“Se volete posso farmi una canna”, propose Silvana senza scomporsi.
Sabina e io la guardammo con gli occhi spalancati.
“Okay”, ridacchiò Silvana, alzando le braccia in segno di resa. “Trascendo.”
“Sei ubriaca?” le chiesi.
“Può darsi. Diciamo che sono emotivamente un tantino provata. Sai, è la terza volta che partecipo al funerale di tuo padre.”
Aveva ragione. Questo poteva anche spiegare il motivo per cui aveva cominciato a parlare con le ceneri di mio padre. Non una vera e propria conversazione, intendiamoci, solo qualche sporadica battuta, che Sabina ed io avevamo finto di non sentire più che altro perché, onestamente, non sapevamo come reagire.
“Esprimi un desiderio”, dissi folgorata da un’idea.
“Scusa?”
“Adesso. Dimmi cosa ti farebbe star bene”.
“Una doccia”.
“E poi?”
“Un massaggio, una messa in piega, una manicure, qualunque cosa che mi renda meno primitiva”. E mi rivolse un sorriso di sfida.
“Okay”.
“Okay cosa?”
“Avrai il tuo massaggio e la messa in piega”.
“Stai scherzando?”
“Mai stata tanto seria.”
“Ehi ehi ehi”, ci interruppe Sabina. “Di cosa diavolo stiamo parlando?”
“Di un salone di bellezza. Proprio dietro al pub,” spiegai.
“E ti sembra questo il momento?”
“Perché no?”
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“Acqua, terra, e fuoco,” recitò in tono melodrammatico. “Il sodalizio degli elementi della natura. E tu cosa fai? Mi proponi una ceretta?”
Risi. “Vedila da un altro punto di vista, come un rito di purificazione”. D’accordo, Sabina non si sarebbe mai bevuta quella penosa acrobazia semantica, ma in fin dei conti era stata lei a citare, meno di dodici ore prima: mens sana in corpore sano. E poi, lo ammetto, non mi era venuto in mente nulla più convincente.
“Bieco, volgare consumismo”, mi corresse, guardandomi con una strana intensità, come se non riuscisse a credere che fossi caduta tanto in basso. “Sa di ricche borghesi divorziate in preda ad una crisi di nervi.”
“Beh, a una crisi di nervi ci siamo andate piuttosto vicine”, le ricordai con un sorriso. “Dai, Sabi, non può far male a nessuno. Ci regaliamo un’ora di silenzio per purificare il nostro corpo…”
“Da cosa?” mi interruppe scettica.
“Che ne dici di una decina di birre e cocktail?”
La convinsi. Giuro che ancora oggi non so come ci riuscii, ma Sabina acconsentì a trascendere i suoi elevatissimi principi zen per abbassarsi al livello più infimo di noi comuni mortali. Naturalmente la sua resa aveva un prezzo: il trattamento aiuverdico. E visto che la vita era fatta di compromessi, pensai che tutto sommato qualunque cosa fosse l’aiurvedica, non poteva essere tanto diversa da un normale, banalissimo massaggio. E mentre mi accingevo a sperimentare nuovi orizzonti meditativi, Silvana giaceva rigida come un merluzzo sul lettino accanto al mio, coperta di pietre bollenti mentre la fanciulla che si occupava della sua purificazione le versava, con pazienza certosina, un interminabile filo di olio al centro della fronte.
“Bella idea di merda”, mi sussurrò Silvana a denti stretti.
Mi sforzai di non ridere. “Cerca di rilassarti”.
39
“Se mi tocca le tette la uccido”.
“Non ha alcuna intenzione di toccarti le tette”, bisbigliai. “Sta stimolando i tuoi chakra per liberare il flusso vitale.”
“Sembra roba pornografica”.
“Smettila”, le intimai, ridacchiando.
“ Non posso. Guardami, sono unta come una supposta”.
“Ottima visualizzazione”, si complimentò Sabina.
“Tu non mi parlare”, la minacciò Silvana, furiosa.
Fu per lei, credo, l’esperienza più imbarazzante e umiliante della sua vita. Non ha mai perdonato Sabina per questo e, ovviamente, Sabina non ha mai smesso di ridere fino alle lacrime per lo stesso motivo. Io, invece, smisi di pensare e, per la prima volta dopo tanto tempo, lasciai che qualcun altro si prendesse cura di me. Fu una sensazione strana, come galleggiare nell’acqua. Forse è questo che si prova quando si muore. Forse, a soffrire, è solo chi resta. 
Non so cosa mi avesse, allora, spinta a credere di farcela da sola. Forse ero davvero convinta di essere abbastanza forte da superare la morte di mio padre senza perdermi.
Oggi, so che il viaggio che intrapresi con le mie amiche d’infanzia fu una tacita, disperata richiesta d’aiuto. Non andai in Cornovaglia per mio padre. Lo feci per me stessa.
E loro mi salvarono, con le loro risate, i loro battibecchi e una normalità che avevo quasi dimenticato. Avevo respirato l’odore della morte per diciotto lunghissimi mesi, e in una gelida giornata di fine gennaio avevo sepolto mio padre, ringraziando Dio che fosse finita.
Invece, quello fu l’inizio di tutto.
40
Mentre guidavo in silenzio verso l’oceano, pensai che se mio padre era vissuto senza far rumore, per dirgli addio, io ne avevo fatto davvero tanto. Ma sapevo che non avrebbe disapprovato. Lo immaginai mentre alzava lo sguardo al cielo in un’espressione di finta rassegnazione, forse orgoglioso di quella figlia così imprevedibile o forse, più semplicemente, addolorato di non potermi più tendere la mano. Ma avrebbe approvato, perché aveva amato la vita più intensamente di quanto avesse mai dato a vedere. E aveva amato me, quel mio folle coraggio che tante volte mi aveva messo nei guai e in cui, forse, aveva rivisto se stesso giovane, mosso da quella meravigliosa certezza che tutto, davvero tutto, fosse possibile.
Guidai incontro al tramonto, respirando l’aria incontaminata dell’oceano e cantando sottovoce una canzone che fino ad allora non avevo permesso a me stessa di ricordare. Guidai sotto quel cielo spaccato in due, lo sguardo fisso sulle lame di luce che si stagliavano tra le nubi troppo basse, quasi a volermi indicare l’accesso ad un altro mondo.
Poi lo vidi. L’oceano. Immenso e sconfinato.
Allora seppi di aver fatto la cosa giusta.
“Sono arrivata”, dissi a bassa voce. Fermai la macchina e inspirai profondamente prima di scendere. Dio, era più bello di quanto ricordassi. Sabina e Silvana rimasero immobili per qualche istante, poi cominciarono a girare su loro stesse, lasciando correre lo sguardo su quella natura selvaggia e silenziosa.
“Toglie il fiato”, mormorò Sabina.
“Lo so”. Aprii il portabagagli e presi la mia piccola scatola di latta avvolta nel velluto. Ciò che restava di mio papà.
Ciò che aveva dato inizio a tutto.
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Silvana la sfiorò con la punta delle dita, poi mi guardò e fece un lieve cenno con il capo. Non disse nulla. Non lo feci neppure io. Rivolsi loro un ultimo sorriso e mi incamminai, sola, verso la scogliera, indossando un semplice abito bianco, così come doveva essere. Attraversai la fredda terra della brughiera, scalza come una bambina, ascoltando la voce dell’oceano e pensando che quello era il luogo dove mio padre avrebbe riposato.
Non ci furono né fiori né preghiere. Solo io e mio padre.
Sollevai la scatola che stringevo in grembo, pensando a quanto amore era racchiuso tra le sue minuscole pareti, poi l’aprii e consegnai le sue ceneri all’oceano.
E urlai.
Urlai come forse non avevo mai fatto in vita mia.
Alla fine, quando l'oceano inghiotti tutto il mio dolore, venne il silenzio e, con il silenzio, vennero le lacrime. 

                           

A mio papà

                               

48 commenti:

  1. Trovare un equilibrio dopo un evento destabilizzante: "Senza rumore" lo fa con profonda e arguta semplicità! E' sempre bello rileggerlo!

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    1. Ciao Xanadu!!! Quindi tu hai il libro?

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    2. Certo! Mi ha fatto tanta compagnia!

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    3. Dammi qualche giorno e pubblico anche la continuazione .-)

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  2. Grazie! Avere le tue storie a portata di click è un gran piacere e una grande ... comodità!

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    1. :-)))) allora ne approfitto per chiederti qual è la tua preferita

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    2. Appena un poco più delle altre " Il bambino che fermò il tempo" e "Milton". Ho visto il tuo nome in internet e volevo sapere se avevi mai partecipato a concorsi letterari

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    3. Sì, credo di essere molto fortunata da questo punto di vista. Quasi tutte le favole che trovi nel blog hanno vinto almeno un primo premio.

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    4. Mi dispiace di non avere trovato il libro delle favole. Mi hanno risposto che è esaurito.

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    5. Lo so!! Per questo ho scelto di renderle disponibili a tutti. C'erano alcune divergenze d'opinione tra me e l'editore e tornare il possesso dei diritti d'autore è stato fondamentale. Per quello non puoi più trovare il libro.

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    6. Quanta parte della tua vita reale c'è in ogni storia?

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  3. In ognuna delle storia, Xanadu, c'è un pezzo della mia vita. Nulla è solo inventato. Le fondamenta delle fiabe sono cose realmente accadute a me o ai miei figli e dar vita a una storia è stato il mio modo di spiegare loro perchè quelle cose accadono. Sai, spesso noi adulti sottovalutiamo la capacità di sentire e comprendere che hanno i bambini. Quindi non diamo risposte, ma loro hanno un disperato bisogno di queste risposte

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    1. Anche " Bisbigli" mi ha colpito in m odo particolare. Se possibile, vorrei sapere quale ispirazione c'è dietro. Grazie!

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    2. Bisbigli è stata forse la storia più difficile da scrivere. Volevo che fosse una storia sull'essere diversi senza per questo dare una connotazione precisa al concetto di diversità semplicemente perchè ogni cultura isola e respinge persone e comportantamenti o idee che sono differenti di paese in paese. La storia voleva essere per tutti. Io credo che ognuno di noi abbia vissuto un'esperienza di questo genere. Alla fine ciò che accomuna molte persone è la mancanza di coraggio perchè il coraggio ha sempre un prezzo, anche se non ci piace ammetterlo. Mio figlio l'ha imparato a 9 anni. Ma a differenza del bambino della storia lui ha scelto di sfidare le convenzioni e ha rifiutato la strada più facile perchè sapeva che noi eravamo con lui. Vedì, i figli imparano guardandoti. Puoi raccontare loro tutto quello che vuoi, ma è quello che fai che fa la differenza. L'esempio. Quindi questa storia è nata come monito ai tanti adulti che hanno la responabilità di crescere gli uomini del futuro. Ne ho visti troppi insegnare ai figli che è meglio girare la testa d'altra parte finchè qualcosa non ti tocca personalmente. Io ho sempre fatto il contrario perchè credo che i nostri figli debbano cambiare il mondo.

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  4. In ogni racconto si sente un frammento della tua anima ... Ecco cosa le rende tanto speciali! Grazie per le tue storie!

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    1. Grazie a te Xanadu. Sono felice di conoscere le persone che leggono e si sentono a casa in questo blog :-))) <3

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  5. E' una storia bellissima! Ma è vera? Immagino di sì. Fantastiche le tue amiche, sono stata così felice di ritrovarle in Spiriti, mi sono affezionata a loro come se le conoscessi da una vita! Ho riso così tanto e poi all'improvviso mi ritrovavo le lacrime agli occhi. Tuo padre deve essere stato un grande uomo e ricordarlo con questa storia è la cosa più bella che potessi fare. Brava Claudia

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    1. Quasi tutta vera :-) Sì, mio padre era un grande uomo. Era un giusto

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  6. Meravigliosa, dovrebbero farci un film. L'ho riletta due volte di seguito perchè non riuscivo a staccarmi dall'intensità che si respirava. Ora corro a leggere Spiriti e spero che quelle matte di Sabina e Silvana ci siano perchè le adoro!!

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  7. Un capolavoro di dolcezza e amore. Che bello, Claudia!!!!

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  8. Toccante, irreverente, esilarante. Mi è piaciuto davvero moltissimo.

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  9. L'ho letto tutto d'un fiato stanotte per cui stamattina ho gli occhi gonfi per il sonno. Ho riso e ho pianto e ho pensato che questa è una lettera d'amore scritta da una figlia a un padre e questa cosa mi ha commosso tantissimo. Mi hai portato dentro alla storia, mi hai fatto sentire come se io fossi lì con te Sabina e Silvana. Mi sembrava di conoscervi da sempre! Siete meravigliose e o dato una sbirciata in Spiriti prima di addormentarmi e so che vi ritroverò lì, ma credo che rileggerò Senza rumore prima, con più calma perchè è uan storia bellissima e mi sono sentita come abbandonata quando l'ho finito. Caspita, sei bravissima

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  10. Cerca di dormire stanotte :-)) anche se devo ammettere che quello è il momento che prediligo per la lettura, quando il mondo tace e la mente si svuota di ogni pensiero. Grazie per i complimenti e buona continuazione con Spiriti, Pamela.

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  11. Concordo sul fatto che è una lettera d'amore verso un padre. Bellissima e dolce e irreverente. Bravaaaaaa

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  12. Mi è strapiaciuto. Bello bellissimo!

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  13. Adoro questa storia! Adoro le tue amiche, ma quanto ho riso?

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  14. Io ho riso e ho pianto. Ho perso mio padre qualche mese fa. Vorrei avere il tuo talento per potergli scrivere una lettera d'addio bella come questa.

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    1. E' stato il modo di guarire. Ognuna trova il suo, Paola

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  15. Storia meravigliosa e commovente. Sei bravissima

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  16. Mi è piaciuto da morire!!!! Non vedo l'ora di leggere Spiriti

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  17. Come padre mi hai profondamente commosso. Bellissima storia
    Angelo

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  18. Letto tutto d'un fiato anche io. Ora corro a Spiriti!! Mi è piaciuto tantissimo! Sono stata in Cornovaglia lo scorso anno per cui immaginavo quei paesaggi che tu hai descritto. Il luogo perfetto per dire addio.

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  19. Che bella storia Claudia.

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  20. Io il libro ce l'ho!! Lo avevo comprato diversi anni fa ma non sapevo dell'esistenza delle fiabe. Ho letto tutto da capo, tutto il blog. Sei fantastica e fantastiche sono le tue storie. Un abbraccio una tua fan
    Lina

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  21. La più bella notte in bianco della mia vita. Letto tutto d'un fiato. BELLISSIMO!

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  22. Non mi stancherò mai di leggerlo e rileggerlo. E' bellissimo

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